Il treno fischiava, nel mezzo di insensibili bagagli scarrozzati di qua di là, nel trambusto vuoto, inanimato, assordante di turbe indaffarate, trascinate in furia da un binario a un altro a seconda delle indicazioni raccolte; un sentimento d’ansia e di inquietudine, come un profumo che imbeveva quel luogo, come un’ aria strana che lo riempiva in ogni suo angolo, pervadeva quella stazione, sede di innumerevoli addii e di speranze lontane, al ritmo eguale e fumante d’un treno partito verso altri luoghi, altri mari, altri cieli: verso l’ignoto. Vagoni su vagoni, come serpenti minacciosi e lunghi, si aggomitolavano, fitti, tra i sentieri dei binari, dissolvendosi più diafani rarefatti inconsistenti indistinguibili all’orizzonte, indifferenti alle lacrime più fredde di settembre, ai sospiri, alle malinconie che li seguivano tanto più fermamente quanto più lontano essi si spingevano.