Il salottino

di Greta Evangelisti, II F

Alena Petrovna non era solita decorare il tavolino con un mazzo di ciclamini, di conseguenza redarguì Nikita – il vecchio servo della famiglia – il quale, con numerosi inchini e salamelecchi, si scusò del suo esecrabile errore.

Mentre aspettava le orchidee, la signora sorseggiò il tè alle erbe. Nell’atto di inclinare il collo da cigno, si intravedeva la collana di perle donatole da Vladimir, il suo consorte. Quest’ultimo era un funzionario che, per tutta la sua carriera, aveva anelato alla croce di Sant’Anna, cosa che non aveva ottenuto in quel momento. Portare all’occhiello quel gioiello splendente, quella croce su cui si incrociavano il sole e la luce rubina, sarebbe stato il suo sogno più grande, un modo per uscire dal suo stato di mediocrità e farsi rispettare dai colleghi, esseri con l’occhialino sempre lucidato e la consapevolezza di poter schiacciare tutti.

Per ora, il suo sogno non l’aveva cucito sul soprabito, pertanto si impegnava nel suo impieguccio e, con i rubli guadagnati, comprava costosi gioielli alla sua cara moglie, di cui ora parlerò un po’ di più.

Alena Marja Vasilisa Petrovna era ciò che si sarebbe aspettato da un personaggio letterario: innocenza appesa sulla scollatura, disciplina che si spostava dal pianoforte alla cucina ed eleganza. Amava indossare camicie di seta e gonne di tulle. Nei balli, tutte le dame e persino le principesse del Montenegro invidiavano gli abiti saturi di piume, le sottogonne di altissima qualità provenienti dalla Francia, i guanti morbidi che scivolavano fino al gomito e i gioielli confusi con i delicati schizzi eterei del lampadario. I suoi capelli di corallo erano perfettamente pettinati. Spesso li legava in uno chignon grazioso o in due trecce, eppure preferiva scioglierli. Anche suo marito amava vedere quella cascata di tramonto sulla camicia da notte bianca.

Alina era un portento nel suonare notturni e musica da camera e sul suo carnet si affastellavano nomi sconosciuti, nomi importanti e nomi amici: Andrej Vladimirich Rostov, Grigorij Razumichin, Modest Turgenev, etc…

Tutti l’amavano.

Tutti sognavano la sua figura angelica, le mani di cristallo di Boemia che, se stringevi troppo, si riempivano di ferite, gli occhi grigi inzuppati di dolcezza, l’anima abituata alle insulse chiacchiere con un’Anastasia o con una Varvara.

Lei, però, non voleva nessuno, neanche in villeggiatura. Se avesse voluto ordire una tresca nei confronti del suo compassato marito, lo avrebbe potuto fare, ma non aveva mai voluto.

La ragazza era sempre stata fedele a chi voleva bene e a chi non voleva bene. Senza dubbio, aveva sposato Vladimir solo per sistemare il padre Sergej, ma non aveva nessuna intenzione di amoreggiare con un uomo alle spalle del suo sposo. Non se lo sarebbe perdonato mai.

Anna Karienina e Emma Bovary erano state in grado di spaccare la morale con le loro azioni. Alena no. Non aveva voglia di creare scandali. Non le interessava nemmeno.

La nostra fanciulla si limitava ad imparare nuovi passi di polka e fare amplessi con il coniuge. Nella sua testa non aveva udito i sussurri dell’ignoto.

Nel corso del pomeriggio, osservò il salotto in cui stava addentando un panino. Era simile ad un soggiorno di una casa di bambole. Sulle pareti erano stati incastonati scaffali di legno di cipresso, in cui erano stati ammucchiati vecchi libri. Nelle credenze riluceva l’argenteria, lo smeraldo e l’alabastro. Delle statuette rappresentanti personaggi della mitologia greca si contraddistinguevano tra le zuppiere in porcellana e i portagioie d’ambra.

Sui muri erano stati appesi svariati quadri: su alcuni erano stati ritratti gli antenati della famiglia Petrov, risalente dal 1540. Si diceva che alcuni di loro avessero servito Ivan il Terribile! Altri rappresentavano paesaggi sterminati della Siberia, soffocata dalla neve, sudario per gli infelici che hanno perso la via di casa.

Altri ancora rappresentavano scene di vita di Gesù Cristo.

Al centro della stanza era stato sistemato un tavolino di legno, molto ben apparecchiato. Su esso c’erano tazze di tè e vassoi ricolmi di cibo.

C’era un silenzio di tomba, ridotto a volte in frantumi dall’orologio a pendolo.

Stanca del mutismo pomeridiano, Alena si alzò e si diresse verso il piano. Lo aprì e realizzò quanto la musica fosse stata per lei un dovere, ma anche una mano che l’aveva sradicata dai rovi di uno spleen eterno. Già. I primi giorni di matrimonio erano stati simili a onde che si riducono in lance di salsedine sugli scogli: Alena non aveva fatto altro che piangere lacrime silenziose – ovviamente non scoperta dal marito. Il suo cuore era stato gonfio di dolore, di rimpianto. Aveva dovuto dire addio al davanzale della sua finestra, su cui aveva aleggiato il dolce aroma dei fiori di lavanda; la sottile bacchetta di sole mimetizzata con il mobilio da cucina; gli scherzi di Sasha e Nikolaj, i fratellini. Non poteva lamentarsi: se prima aveva nuotato nella fatica, ora si perdeva nei ricevimenti e nelle pellicce. Per tre giorni, si era rifiutata di giacere con il consorte.

– Non fare la difficile! Sai quanto è importante per me avere un figlio. Rideranno tutti di me, se non consumerò il matrimonio! –

Non aveva ottenuto nulla con le suppliche, né con il fazzolettino che le aveva donato. Alena non aveva voluto saperne.

Piano piano, però, cominciò ad assaporare la sua nuova vita. Un maresciallo venuto a visitarla le aveva detto una frase rivelatoria: “Il lusso è una tenaglia. Nessuno può sfuggirgli, neanche la persona più genuina di questo mondo.”

E tutto aveva cominciato a procedere secondo quelle parole sentenziate tra i calici di vino e le tartine.

Giorno dopo giorno, Alena si liquefaceva. I rimasugli della sua purezza colavano dall’animo con il fine di unirsi al fango denominato “Nobiltà”. Più rispetto aveva, più ne cercava altro. Era come l’oppio fumato nei club.

Quanto si era trasformata! Nello specchio della sua stanza, un’oca starnazzante il nulla percorreva le strade di Pietroburgo insieme ad altre simili, come lei benvestite, come lei consce di una maschera che ogni giorno si incideva sulla loro carne.

A volte si era pentita? Non lo sapeva. O non ricordava, per tutto il giro che aveva compiuto nelle feste.

Chissà cosa stava suonando. Un notturno qualunque?

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