Hiroshige. Il Mondo illustrato dagli Ukiyo-e. Intervista al prof. Luca Calenne.

di Thea Ceccarelli, II G, e Beatrice Saba, III G

Dal 26 ottobre sino al 31 gennaio 2024, il nostro Museo Diffuso Interattivo del Liceo Giulio Cesare sta ospitando la mostra Hiroshige. Il Mondo illustrato dagli Ukiyo-e. Si tratta di una collezione composta da 33 xilografie promossa dai Club per l’Unesco di Roma e Terracina. L’Ukiyo-e è un genere di stampa artistica giapponese che vede nei suoi più significativi rappresentanti Kitagawa Utamaro, il pittore delle donne, Katsushika Hokusai, il paesaggista, e Utagawa Hiroshige, l’eclettico. Per noi studenti del Giulio tale esposizione costituisce l’opportunità di avvicinarci ad una sensibilità molto diversa da quella occidentale.
Lasciamo ora la parola al professore Luca Calenne, docente di Storia dell’Arte nel nostro Liceo, il quale abbiamo avuto il privilegio di intervistare.

Prima di entrare nel dettaglio della tematica, cosa pensa dell’opportunità per il Liceo di ospitare esposizioni di qualsivoglia forme d’arte?

«Credo sia il futuro della scuola che deve aprirsi necessariamente al quartiere, alla società e al contesto urbano di cui fa parte. La scuola finora è sempre stata considerata una specie di entità chiusa, praticamente inaccessibile dall’esterno, invece dovrebbe sempre di più avere un rapporto di osmosi con il territorio che occupa, al fine di avere una maggiore efficacia nella propria azione educativa».

Se intervistassimo i nostri colleghi studenti riguardo al termine Manga, la maggior parte ci risponderebbe positivamente. Probabilmente se ponessimo lo stesso quesito sulla parola Ukiyo-e, non accadrebbe altrettanto. Ci aiuta a comprendere l’essenza di questa corrente artistica? Anche lei, come molti esperti d’arte, ritiene che il Manga derivi dall’Ukiyo-e?

«Non sono specialista dell’arte nipponica, ne sono però un grande ammiratore. I miei studi, i miei interessi sono nel Seicento, dunque piuttosto lontano, ammiro però così tanto quest’arte proprio perché è il contrario di ciò che studio e per lo stesso motivo è stata ammirata nell’Ottocento, soprattutto francese, quando ha raggiunto l’Europa. È un’arte che ha fatto a meno del Rinascimento italiano, che ha fatto a meno dell’invenzione prospettica e degli insegnamenti accademici a quel tempo praticati in tutta Europa. Quindi proprio per questa sua alterità ed estraneità a quella che era l’eredità artistica europea è stata un salutare antidoto a un certo accademismo che ormai stava riciclando sé stesso.

I Manga hanno dei caratteri di continuità rispetto all’arte nipponica, soprattutto quelli dei primi anni Settanta che in Italia sono stati letti da pochi. I Manga attuali purtroppo si sono allineati ad un format statunitense o quantomeno nordeuropeo, a meno di alcuni dettagli ormai rituali come la lettura al contrario oppure l’assenza del chiaroscuro. Dettagli facili da riconoscere e anch’essi ormai caratterizzati da una certa ripetitività, da un certo accademismo.

Certamente si identifica un carattere di continuità tra i primi Manga e l’universo del mondo fluttuante, proprio perché le figure si stampano spesso su dei campi neutri, con un’assenza di dettagli paesaggistici o prospettici che permettono un loro posizionamento spaziale molto più certo, molto più dettagliato. Poi perché queste figure, senza conoscere di fatto quelle che erano le correnti artistiche europee, avevano realizzato una idealizzazione della forma e una purezza delle linee similmente praticata dall’arte europea in alcuni momenti della sua storia. Faccio alcuni esempi: l’Arcaismo greco del VI sec. a.C. o il Rinascimento, oppure magari anche il Neoclassicismo. Il fenomeno è lo stesso, si decide di realizzare una idealizzazione. Ecco perché le figure sono sempre molto simili. È una scelta contraria a quella dominante dell’arte occidentale che è la scelta del Realismo, il quale porta naturalmente ad una varietà di situazioni e di connotazioni. 

È una scelta di natura ideale, figlia del contesto in cui è nata, ovvero nel Settecento nipponico. È un’arte aristocratica, sorta nelle piccole corti feudali dei samurai, connotata da un forte legame con il territorio di origine. C’è la risaia, il piccolo contesto delle geishe, la veduta dei monti ecc.

Ecco, nonostante ci fosse questa riconoscibile ambientazione territoriale era presente una forte stilizzazione, la quale è stata il carattere dominante dell’arte nipponica fino agli anni Sessanta-Settanta, quando ancora il Giappone aveva una propria riconoscibilità. 

Quando è iniziato il format del cartone animato, quella riconoscibilità si è persa. Finché l’opera era grafica, ancora teneva questa tradizione, dopo per adeguarsi ad un mercato più vasto, si è praticato un disegno in cui compare la prospettiva e il chiaroscuro. 

Non voglio deludere i lettori di Manga, forse ora c’è un po’ di ripetitività».

L’Ukiyo-e ha conquistato il cuore di molti artisti europei, possiamo infatti citare influenze di tale corrente in Manet, Monet, Van Gogh, Degas, Klimt e tanti ancora. Allo stesso tempo i giapponesi hanno imparato ed importato dalla cultura occidentale. Anche se poco esperti riusciamo a cogliere il fascino di tale compenetrazione culturale. Vuole spendere qualche parola in proposito?

«Dopo la seconda guerra mondiale il Giappone è stato colonizzato prima dagli Stati Uniti e poi dai suoi partner europei. Tra i romanzieri del tempo ci sono stati fieri avversari al processo di americanizzazione, ad esempio Mishima, un gigante della letteratura che vi invito a leggere. Nonostante ciò, il processo è stato chiaramente irreversibile e sono stati accolti degli elementi figurativi che magari fino a quel tempo erano disprezzati. Voglio andare in Turchia e cito un romanzo che si chiama Il mio nome è Rosso di Orhan Pamuk. L’autore inventa una sorta di giallo che ha come protagonista un pittore, un miniatore turco, ottomano dell’inizio del Seicento, il quale scopre la prospettiva. Poi però, proprio perché questa invenzione rivoluzionaria cambierebbe il volto dell’arte islamica, viene in qualche modo eliminato. Quindi l’invenzione è vista con grande sospetto, con il grande timore che possa sconvolgere degli equilibri.

In Giappone tutto ciò non è avvenuto. Ha preso qualche elemento stilistico dall’arte occidentale, ma sostanzialmente è rimasto fedele alla propria cultura. Fino alla generazione dei Mazinga e dei Kenshiro i giapponesi leggevano dei fumetti che circolavano solo in Giappone e non leggevano la Marvel. 

Si trattava dunque di una produzione destinata all’auto consumo, complice anche la lingua, infatti per tradurla bisognava cambiare il fumetto, non era sufficiente la sola traslitterazione. 

Il Giappone ha accolto ben poco dell’Occidente sino all’ultimo trentennio, lo ha fatto successivamente allo scopo di esportare il proprio prodotto e ancor di più lo sta facendo oggi, in quanto il disegno al computer ha sostituito la china e, di conseguenza, i meccanismi di videoscrittura e video immagine permettono di parlare la lingua della prospettiva e di realizzare dei chiaroscuri. 

C’è tutto un meccanismo, ormai facile da applicare, che rende i fumetti giapponesi attuali molto più simili agli occidentali rispetto a quelli di anni fa. In compenso è successo il contrario, i fumetti della Marvel hanno incominciato ad assorbire alcuni caratteri da quelli giapponesi. Ad esempio la definizione dell’anatomia, una certa inquadratura dell’immagine che è sempre meno a tutto campo e più ravvicinata, una parcellizzazione degli elementi dell’ambientazione. Si è manifestato più il fenomeno secondo cui gli occidentali hanno seguito il Giappone piuttosto che viceversa. L’Occidente, tutto sommato, è visto con sospetto dai giapponesi, complice pure il fatto che sono state distrutte due città. Loro sono dei grandissimi esteti, hanno una venerazione per alcuni nostri pittori ma i motivi per cui li apprezzano sono completamente diversi dai motivi che possiamo pensare noi. A loro può interessare più la purezza della linea quando noi invece siamo interessati alla drammaticità del soggetto. Questo è il motivo per cui anche grandi registi giapponesi realizzano sì degli omaggi a Van Gogh o ad altri artisti dell’Ottocento francese però sempre filtrati dalla loro sensibilità. Penso a Kurosawa. Quando realizza il suo cammeo Sogni, racconta un Van Gogh visto con gli occhi di un giapponese».

Torniamo alle xilografie esposte nell’Area Museale del Giulio Cesare. Noi ragazzi abbiamo ancora del tempo per prenderne visione o per tornare a farlo forti di un suo suggerimento: su cosa possiamo focalizzare l’attenzione?

«Parlavamo della stilizzazione che guida la mano dell’artista giapponese e a tal proposito voglio citare la mostra di Fidia ai Musei Capitolini. Credo sia irrinunciabile anche solo guardare il volto dell’Athena Lemnia, la copia conservata a Bologna riprodotta nella locandina della mostra, per comprendere di cosa stiamo parlando. I tratti vengono depurati da ogni accidente estemporaneo per avere una forma assolutamente universale, perfetta, che è più o meno la forma delle geishe delle immagini esposte nell’Area Museale.

Quando vedete queste opere su carta, le quali ovviamente non sono tutte dello stesso valore, non sono tutte della stessa epoca, sapete di non trovarvi di fronte a delle reliquie, esse hanno dei valori sia commerciali che estetici diversi. Ebbene è consigliabile non guardare l’opera solo frontalmente e anche da una certa distanza, ma avvicinarsi, magari anche un po’ di lato e cogliere i dettagli a luce ardente per vedere i segni dell’impressione della matrice sulla carta. Cercate di capire come il colore è stato inchiostrato. Sono particolari che si possono carpire soltanto dal vivo perché nelle xilografie riprodotte sui vostri libri di testo l’immagine viene schiacciata e tante informazioni si perdono. Quindi provate ad entrare nella materialità di queste stampe per capirne un pochino di più l’esecuzione tecnica. 

Quanto detto vale per tutte le classi, poi c’è un discorso che rivolgo soprattutto alle terze. La xilografia è una tecnica che in Europa è nata nel Quattrocento, quindi la xilografia europea vantava già almeno tre secoli di vita e di grande gloria quando si sviluppano quelle giapponesi, sebbene siano molto diverse. La xilografia occidentale propugna dei contorni molto forti, molto netti, con degli spazi bianchi che vengono compressi dal disegno. Nell’arte nipponica invece tutto è molto più arioso e più leggero. La tecnica è la stessa ma gli esiti sono completamente diversi. Questo è molto affascinante. Uno è il mondo della curva, il mondo delle atmosfere fluttuanti, l’altro è invece il mondo dell’espressività, della durezza dello spigolo. È interessante come due sensibilità distinte, sfruttando una tecnica simile, siano riuscite a generare opere molto differenti. Se confrontiamo Dürer e Hiroshige vediamo opere completamente diverse generate entrambe da una matrice di legno».

Per lasciarci con un auspicio, quale mostra augura di ospitare al nostro Museo Interattivo?

«Una mostra omnicomprensiva come quella che propone Le scuderie del Quirinale o Il palazzo Bonaparte, per una piccola istituzione come il Liceo, è impossibile. Saranno sempre piccole mostre mirate ad una tematica molto esclusiva.

Magari, sapendolo per tempo, si potrebbero attivare dei lavori in classe mirati all’argomento trattato ed in questo modo gli studenti potrebbero contribuire ed interagire con la mostra stessa».

Grazie mille professore.

E così il professore Luca Calenne, con le sue splendide parole, ci ha regalato una nuova prospettiva della mostra giapponese, chiarendo quesiti a noi sconosciuti. La grafica sotto riportata è frutto della nostra visione personale della mostra. L’abbiamo intitolata fuoco giapponese, in nome della sensazione passionale che ci ha trasmesso guardando le varie xilografie presenti. Essa al centro ha come personaggio principale una tipica donna in stile manga, che, come ci ha ben spiegato il professore, è il successore della xilografia stessa. Ci siamo addentrate alla scoperta di una cultura nuova, assai diversa da quella occidentale, e piena di sorprese che ci ha stupito e meravigliato.

Fuoco giapponese, di Beatrice Saba

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