LA PAROLA COME MACCHINA DEL TEMPO

Di Isabella Gatti

Il capolavoro di Marguerite Yourcenar è un romanzo che narra dell’imperatore del II secolo Adriano, ma la scrittrice francese permette al lettore di immergersi nella vita personale e politica dell’uomo romano in un modo del tutto innovativo. 

Presa dalla lettura, mi sono chiesta perché la scrittrice avesse scelto come protagonista della propria opera Adriano. La Yourcenar ci narra delle vicende che caratterizzarono la vita dell’uomo politico, poiché visse in un’epoca storica particolare: “quando gli dei non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo”, sostiene la scrittrice, e Adriano appariva un personaggio adatto a rappresentare l’uomo in questa particolare condizione. 

Non voglio però dilungarmi nel riportarvi ciò che la scrittrice, calandosi nelle vesti dell’imperatore, racconta; riuscirei solo a fare un riassunto, senza però potervi trasmettere le emozioni che ho provato leggendo le pagine del libro. 

Ho deciso così di concentrarmi su una frase che mi ha colpito particolarmente. 

“…Ho amato soprattutto i poeti più ermetici e oscuri, che costringono il pensiero alla ginnastica più ardua, sia i recentissimi sia gli antichi, quelli che mi aprono sentieri completamente nuovi, o mi aiutano a rintracciare piste smarrite. …”

Mai pensavo di poterlo dire, ma, leggendo queste righe, per la prima volta mi sono sentita vicina ad un imperatore romano. 

Non posso che concordare con il pensiero di Adriano. Infatti quando, qualche anno fa, ho studiato l’Ermetismo, sono rimasta affascinata dai temi trattati e dalla varietà di riflessioni che solo i poeti ermetici sanno offrire. La parola “ermetismo” fu però coniata intorno al 1930, quando, a Firenze, nacque questo nuovo movimento letterario. Il nome fa riferimento a qualcosa di difficile apertura, chiuso ermeticamente: la poesia ermetica, infatti, è ardua, misteriosa, con fatica e fantasia si riesce ad andare oltre il significato letterale e non sempre la si comprende fino in fondo. Gli scrittori ermetici fanno propria l’esperienza futurista e simbolista, i cui principali rappresentati volevano lasciare al lettore la possibilità di interpretare liberamente il loro pensiero scrivendo poesie di poche parole; arrivarono anche all’esasperazione di ciò lasciando la pagina bianca: non essendo scritto nulla, il lettore poteva dare sfogo alla propria fantasia.

Come possiamo, infatti, fermarci con la mente davanti a poche parole, e accettarle così, limitandoci a pensare al loro significato base?

Questo concetto, l’ho poi compreso ancora più a fondo, iniziando a tradurre. O meglio… prendendo i primi 4 alle versioni. Infatti, quando trovavo una parola di cui non conoscevo la traduzione, aprivo il dizionario e iniziavo a sfogliare le pagine sottili. Così, scorrendo velocemente l’indice destro sui lemmi vicini a quello che cercavo, individuavo finalmente la tanto attesa parola. Una volta trovata, leggevo ciò che c’era scritto accanto, rincuorata di legger finalmente una parola comprensibile, la riportavo subito sul mio foglio, senza nemmeno immaginare che potesse essere il significato sbagliato e che, invece, la traduzione adatta si trovasse poche righe sotto.

Ho così sperimentato profondamente quanto le parole debbano esser comprese e analizzate una ad una. Quanto possano avere un peso. Quanto sia difficile usarle correttamente. Quanto possano alludere a concetti a cui nemmeno chi le pronuncia o scrive aveva pensato.

Così, viaggiando ancora con la mente, nelle giornate uggiose, sono arrivata a domandarmi se chi fa delle parole il proprio mestiere sappia in realtà tutte le strade che aprirà al futuro. Ad esempio Ungaretti nella poesia Soldati definisce, implicitamente, gli uomini al fronte foglie sugli alberi d’autunno. Certamente la parola che il poeta mette in risalto è proprio “foglie”, che lascia, infatti, sola nell’ultimo verso. Sicuramente il poeta vuole trasmettere al lettore l’instabilità della vita dei soldati, attaccati ad un ramo, quindi alla vita, e pronti a cadere da un momento all’altro, spinti solo da un alito di vento. Come diceva Remarque, basta un centimetro per morire in trincea. Ma sicuramente, leggendo la breve, ma ricca, poesia di Ungaretti, vi torneranno alla mente le anime sulla trista riviera d’Acheronte, che si gettano sulla barca di Caronte: 

«Come d’autunno si levan le foglie

l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo

vede a la terra tutte le sue spoglie,

similemente il mal seme d’Adamo

gittansi di quel lito ad una ad una,

per cenni come augel per suo richiamo.»

Ma siamo sicuri che Ungaretti si ricordasse o alludesse ai famosi versi di Dante? 

Così come Ungaretti ed i suoi colleghi, o anzi “fratelli” soldati, anche Adriano sentiva vicina la morte: nel primo capitolo, dal titolo “Animula vagula blandula”, sostiene, senza nessun filtro, di “cominciare a scorgere il profilo della propria morte…”.

Ciò che amo nei libri è sentirmi vicino ai personaggi, riconoscermi nel protagonista, immedesimarmi nei gesti, sapere già cosa risponderà il mio personaggio preferito, perché è come se lo conoscessi da una vita. 

Ecco, in questo c  aso non solo mi sono sentita vicino ad un uomo vissuto quasi 2000 anni fa, ma ho conosciuto meglio questi grandi personaggi che fino ad ora avevo sempre solo studiato nei libri di storia, e immaginato come persone diversissime da noi, da me. Invece finalmente ho potuto conoscere il lato più umano dell’imperatore Adriano, entrare nel suo cuore, leggere e scoprire il suo amore per Antinoo, che descrive come “un gioco che porta all’estasi del corpo, che poi sottomette e inchioda il proprio corpo a quello dell’amato”, a sentire la sua paura della malattia che corrode il corpo e il suo desiderio di morte, che lo porta a dubitare di tutte le opere compiute, le quali risultano inutili, vane ora che dovrà abbondonare la vita terrena.

Sicuramente è un libro che consiglio, ma suggerisco a voi, futuri lettori, di combinare la lettura del romanzo con un’infarinatura di storia di quell’epoca. 

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