Olimpiadi di filosofia: “La quiescenza del male”

di Maria Mandolesi 3B

Cos’è la violenza? Per quale motivo l’uomo è portato a cercare di prevaricare sull’altro? Il male è necessario per consentire al motore della storia di continuare il suo incessante e ritmico progredire? Esiste uno schema univoco che permetta di analizzare lo sviluppo storico in maniera univoca? Il ruolo dell’uomo all’interno del sistema è meramente passivo o egli può effettivamente essere considerato faber fortunae suae ?

Partendo dall’ingegnosa garanzia concettuale fornita da Hegel e Marx, secondo cui  “ogni società contiene i semi di quelle successive” e il moto del progresso storico si esprime attraverso scontri di forze antagoniste, Hannah Arendt esprime in modo lapidario che“Si può interpretare ogni “regresso” come un necessario  ma temporaneo contrattempo”. Questa affermazione, tuttavia, porta con sé diverse problematicità , sia per quanto concerne le premesse sia per quanto riguarda le effettive conseguenze da un punto di vista politico sociale.

Si cercherà dunque di dimostrare l’inconsistenza veritativa e l’inattuabilità della tesi  attraverso un iter che toccherà i seguenti punti:

  1. La storia ingabbiata nella capsula del determinismo
  2. La violenza come volontà delle autocoscienze di preservare il proprio ego
  3. La necessità di una pace duratura
  1. La storia ingabbiata nella capsula del determinismo

Lo storicismo deterministico hegeliano e marxista

Secondo la logica una tesi è falsa nel momento in cui sono false le sue premesse. La tesi della Arendt poggia sullo storicismo deterministico sviluppato da Hegel e sul materialismo storico di stampo marxista, definibili come le premesse che permettono lo sviluppo della tesi. Entrambe le due concezioni, sebbene apparentemente in contrasto, presentano una somiglianza di fondo. Da una parte Marx, confutando Hegel, proclama la volontà di descrivere e, soprattutto, trasformare la realtà da un punto di vista economico, senza occuparsi dello Spirito hegeliano, ma dell’uomo. Egli, tuttavia, cade nella stessa rete in cui precipita Hegel: concepire la storia da un punto di vista dialettico significa considerare la dialettica come principio, come “forma a priori” atta a descrivere univocamente la realtà. In questo modo, il progredire della storia non può essere spiegato se non in termini di tesi, antitesi e sintesi con l’obiettivo di permettere alla storia di continuare a progredire incessantemente e teleologicamente verso la sintesi suprema. L’analisi delle inevitabili  conseguenze del determinismo storicistico verterà su:

  1. La nientificazione dell’individuo
  2. Il giustificazionismo  

La nientificazione dell’individuo: come risolvere l’impasse?

Assecondare le tesi hegeliane e marxiste vuol dire necessariamente ammettere l’amara subordinazione dell’individuo al sistema. Il macrocosmo fagocita il microcosmo, il sistema hegeliano ingurgita la specificità dell’individuo kierkegaardiano. La storia, però, non può essere concepita come un sistema isolato: essa si configura come il prodotto dell’azione umana. Cosa si intende per uomo? Non si tratta degli individui cosmico-storici hegeliani, le uniche grandi personalità capaci di lasciare un segno duraturo sul corso incessante della storia. Per uomo non si intende neanche un individuo necessariamente etichettato come oppresso o oppressore in senso marxista. L’uomo è chiunque dotato di res cogitans, un essere che vive, muore, pensa, lavora, ama. Solo riconoscendo l’autentica partecipazione di ogni individuo alla storia sarà possibile evadere dalla rete. Un puzzle ha significato perché ogni singolo tassello apporta un elemento diverso, un colore differente, una forma peculiare. Tutti siamo diversi e degni di essere padroni della storia.

Il giustificazionismo 

Per giustificazionismo si intende la giustificazione della violenza, inevitabile conseguenza della tesi supportata da Hannah Arendt. Il regresso è definibile come il “periodo buio”, il “male”, il momento della storia caratterizzato da guerre rovinose o crisi di qualsiasi tipo. Assimilandolo a un “contrattempo necessario ma temporaneo” la Arendt sta inevitabilmente giustificando le guerre, il male, la loro necessità, la loro inevitabilità. Le guerre sono necessarie? La distruzione volontaria dell’altro è inevitabile? Questo punto troverà risposta nella sezione seguente, dove si dimostrerà da dove nascono le guerre e quale contraddizione intrinseca celano.

  • La violenza come volontà delle autocoscienze di preservare il proprio ego

Il principio di autoconservazione: la causa prima della violenza

La violenza ha sempre trovato il suo campo d’azione nella guerra, che si è palesata come qualcosa di onnipresente nella storia umana a partire dalla Guerra di Troia fino al più recente conflitto israelo-palestinese. La guerra nasce dalla volontà che contraddistingue ogni individuo fin da quando le sue funzioni biologiche iniziano a funzionare: l’istinto di autoconservazione. L’istinto nasce dalla necessità dell’uomo di preservare la propria vita e di potenziarla sfociando in un necessario scontro con l’altro per conseguire l’egemonia (homo homini lupus). La dialettica hegeliana è dunque in questo caso applicabile in quanto non si erge a descrivere il rapporto tra le epoche storiche, ma quello vigente tra individui o classi di individui in una determinata situazione contingente, senza mettere sullo stesso piano periodi temporalmente diversi. L’uomo nasce come monade e successivamente comprende l’inevitabilità di diventare animale politico e costituire una società che garantisca norme e codici atti alla conservazione di se stesso: nella comunità l’uomo potenzia al massimo il suo egoismo. Accade dunque poi che una società, in cui ormai si è costituito un equilibrio abbastanza solido, voglia potenziare ancora di più la sua sfera d’azione o riconosca nell’altro un nemico da eliminare. Ecco come  inizia in maniera schematica una qualsiasi guerra. Il principio di autoconservazione, che si credeva fosse stato sedato con la creazione di una società, si presenta nuovamente, in una forma ancora più rovinosa. 

La contraddittorietà della violenza

La guerra dunque appare l’unico modo con cui l’uomo può conservare o potenziare il suo ego? No. La contraddizione si nota subito da un punto di vista etimologico. Conservare significa cum-servare, mantenere, custodire, proteggere la vita. La violenza e la guerra concepite come distruzione ne sono la negazione più assoluta. L’individuo tenta di preservare o potenziare la vita e contemporaneamente rischia di morire, di perdere l’unica cosa che effettivamente vorrebbe conservare, la vita stessa. Quest’ultima si getta così in mano alla morte e il male che si credeva necessario si dimostra l’instrumentum meno efficace per garantire il successo. Si pensi al 1917, l’anno cruciale della Prima Guerra Mondiale, durante cui una moltitudine di soldati russi   ammutinò a causa delle continue sconfitte e della rivoluzione che ormai stava dilagando in Russia. La loro gerarchia di priorità era chiara: al primo posto c’era la volontà di conservare la loro vita, il loro bisogno di non essere più osservatori di una carneficina incessante che avrebbe potuto anche investire loro stessi. C’è chi si accorge della contraddittorietà della guerra e c’è chi invece segue imperterrito la via della violenza, come Eichmann.  Egli, come tanti altri, giustificò le nefandezze commesse affermando di essere stato costretto da un potere sovrastrutturale, quello di Hitler. Appare chiaro che anche in questo caso il motivo che muove l’uomo a diventare servitore del male è connesso al principio di autoconservazione: Eichmann, timoroso di morire, si piega inevitabilmente sottoponendosi al giogo hitleriano. Come Arendt sottolinea nel “Processo a Eichmann” c’erano anche altre cause più profonde che funsero da catalisi, ma questo rimane comunque un magistrale esempio per corroborare la tesi: tutto è mosso dal principio di autoconservazione. Dunque, se è stato dimostrato che la guerra nella maggior parte dei casi corrisponde alla non-vita , qual è la soluzione per garantire il potenziamento di ogni uomo e al tempo stesso eliminare il male?

  • La necessità di una pace duratura

Ineliminabilità del male

Bisogna partire dal presupposto che la violenza, come ogni altro veleno o morbo, non può essere eliminata definitivamente in quanto, sviluppatasi a causa del principio di autoconservazione e sopravvissuta a secoli di storia umana, si è ormai radicata così profondamente da non permettere a nessun antibiotico di sradicarla nella sua interezza. L’ineliminabilità, l’onnipervasività della violenza, tuttavia, non corrisponde alla necessità di farne uso. Io posso conoscere un ideale perché mi è stato insegnato o perché l’ho sviluppato da me, ma allo stesso tempo posso essere conscio della sua contraddittorietà e inutilità. Come riuscire a garantire che il male sia, almeno parzialmente, sradicato?

L’antinomia tra pace duratura e pace perpetua

Ciò a cui l’uomo deve tendere con ogni fibra del suo corpo è la pace duratura. Come sottolinea sapientemente Norberto Bobbio, la pace duratura si discosta completamente dall’ideale di pace perpetua. Perpetuum si riferisce a qualcosa che si sottrae a qualsiasi cambiamento, una sostanza naturante e naturata spinoziana che, abbracciando tutto in senso panteistico, non permette a niente di corromperla o sradicarla. In questo modo, tuttavia, incombe sull’uomo un rischio: la dimenticanza. Affidarsi a un’idea di pace perpetua significa infatti accasciarsi nella comoda convinzione che il male non si mostrerà più in tutta la sua mostruosa portata. Questa è un’illusione. Essendo il male ineliminabile del tutto, risulta logico che il rischio della sua comparsa è sempre possibile. L’uomo, dunque, deve elaborare un  sistema che permetta una pace duratura, che possa abbracciare l’arco di tempo più esteso possibile. La sostituzione dell’aggettivo perpetuo con duraturo rivela la presa di coscienza dell’uomo come essere errante, soggetto a sbagliare. Si immagini un’industria in cui un lavoratore si occupi per la maggior parte della sua vita di svolgere la medesima mansione, identica, ciclica, ripetitiva. Ha vissuto per anni facendo quel lavoro, solamente quello.  A un certo punto, a causa della chiusura dell’industria, è costretto a cercarne uno nuovo, ma in nessun luogo si degnano di assumerlo, perché, non avendo mai sviluppato altre abilità, è capace di compiere  unicamente quella mansione. Egli aveva sempre vissuto nella sicurezza, ma, con il crollo di quell’unica sicurezza, si è trovato privo di orientamento. Il disegno è chiaro:

  • La sicurezza rappresenta la pace perpetua 
  • La chiusura dell’industria è il male, che sopraggiunge inaspettatamente
  • Il lavoratore senza bussola è qualsiasi uomo che, nella convinzione che il male non si sarebbe mai ripresentato, mostra tutta la sua debolezza e amechania, mancanza di mezzi

Sopraggiunge dunque la necessità di una pace duratura che riveli, sia da un punto di vista terminologico che concettuale, il rischio che il male sopraggiunga nuovamente. Il rischio rimane, ma viene sedato momentaneamente, cristallizzato e reso quiescente.

Il ruolo attivo della cultura e della filosofia: il rimedio contro il male

Nei periodi quiescenti di pace duratura gli uomini devono dunque impegnarsi in modo attivo per rimediare al rischio che il male si presenti. La cultura e la filosofia costituiscono i mezzi più potenti che abbiamo concepito. La cultura, in ottica calviniana, deve diventare midollo di leone. Come il midollo osseo permette al nostro corpo di rigenerarsi attraverso la produzione, per esempio, di globuli rossi, così la cultura deve fornire nutrimento in vista dell’edificazione di una morale solida, esemplificata mediante l’immagine del leone. La filosofia, in ottica politico-sociale, deve costituire il tassello complementare che analizza i precetti su cui si basa l’attività umana per renderli sempre più efficaci. La riflessione sia della cultura che della filosofia deve essere sviluppata in un’ottica di perfettibilità e non di perfezione in quanto, ribadiamo, il male rimarrà onnipresente.

La tesi di Hannah Arendt viene così scardinata: il regresso, la violenza e quindi il male non sono necessari. Il male costituisce il depotenziamento dell’uomo, sfibrato di ciò che di più prezioso possiede, la vita. Riconoscendo la contraddittorietà intrinseca della violenza e l’humanitas che abbraccia ogni singolo essere umano, la sfida che dobbiamo necessariamente imporci è lapalissiana: bisogna lenire il più possibile la violenza.

Bisogna rendere il male quiescente

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