Influencer: le loro radici nella storia

di Alessia Risiglione, II G

Andrea Villa, pseudonimo di un artista anonimo, negli ultimi anni ha inserito illegalmente nei pannelli pubblicitari del comune di Torino manifesti dai toni fortemente provocatori. Il suo ultimo poster vede la copertina del famoso romanzo distopico “1984” di George Orwell, ma il celebre occhio del Grande Fratello è stato sostituito con quello del logo del brand di Chiara Ferragni. Nel libro Orwell immaginava un mondo nel quale le persone vivono sotto il controllo di un dittatore, il Grande Fratello, che continuamente le spia per reprimere ogni comportamento che non si uniformi al proprio pensiero. Nella rivisitazione di Andrea Villa Ferragni è, contemporaneamente, il protagonista del libro e il Grande Fratello, spiata dal suo stesso occhio e dalla sua immagine, vittima del suo stesso social.

Prima dello scandalo, secondo il giornalista Gramellini, la Ferragni non era solo l’influencer di riferimento di tutti gli italiani, ma anche “una nostra cara amica”. Era (e continua ad essere) normale discutere e criticare i suoi fatti personali, come la maternità e la relazione con il marito, come se lei, il soggetto interessato, fosse lì nella stessa stanza a rispondere, o come se la conoscessimo davvero e non solo tramite i trenta secondi della sua giornata che vengono condivisi attraverso i social. Perché questa situazione non ci sembra più un’assurdità? Perché la figura dell’influencer è nata e ha rapidamente preso il sopravvento?

Se intendiamo con “influencer” una personalità carismatica capace di influenzare comportamenti e preferenze, in particolare su aspetti più visivi come la moda, potremmo far risalire le radici di questa figura a tempi più antichi di quanto si possa pensare.

Creare tendenze di usi e costumi era un’abilità padroneggiata soprattutto dalle donne di corte, come Caterina de Medici che nel XVI secolo diede vita alla moda dei tacchi alti, Elisabetta I Tudor, con il trucco dalla base bianca per il viso o Maria Antonietta nel ‘700 il cui stile era notoriamente eccessivo, dalle parrucche alle gonne che potevano raggiungere i cinque metri di ampiezza. Qualunque siano state le mode introdotte, gli schemi non cambiarono nonostante i diversi secoli: tutte le cortigiane volevano imitarle, creando così tendenze sia di moda che di comportamenti (basti pensare al galateo) che prima o poi arrivavano anche alle classi sociali più basse.

Con l’avvento e la diffusione del cinema nel XX secolo, la società ha avuto modo di vedere i volti delle persone carismatiche di cui tutti parlavano. E, seppur attraverso uno schermo grande, si aveva la percezione di conoscerli un po’ di più rispetto ai semplici passaparola o, per chi era più fortunato, i dipinti. Così, Marylin Monroe o Audrey Hepburn divennero delle vere e proprie icone di femminilità e di stile. Negli anni ‘90 poi, con l’affermarsi delle riviste e della televisione, si è verificato il tragico (a mio modesto parere) caso di Lady Diana, perseguitata ovunque dai paparazzi. Già negli anni Cinquanta, quelli della Dolce Vita immortalata da Fellini, si era sviluppata la figura del “paparazzo”, fotografo disposto a tutto per soddisfare le curiosità dei cittadini in merito alla vita privata delle celebrità. Però perché tutti erano alla ricerca dell’ultima foto rilasciata, perché ne erano così ossessionati? Perché Lady Diana, nonostante fosse una principessa reale, era una persona come tutti gli altri, e le foto dei paparazzi dimostravano proprio questo! Spesso è descritta come la “persona più fotografata al mondo” e anche se diverse fonti sostengono che ciò non sia vero, resta il fatto che la principessa del Galles fu ripresa in ogni sua sfaccettatura: dalla noia di un evento reale, durante il quale sembra quasi addormentarsi, alla fierezza della rivalsa dopo l’annuncio pubblico dell’infedeltà del marito (la famosa foto con il “revenge dress”). Diana però fu solo vittima degli scatti, della folla che la seguiva dappertutto, e di quella sorta di culto che si era venuto a formare in suo onore.

Il culto delle celebrità arriva fino agli anni 2000-2010: ora però sono loro a mostrarsi. Sono questi gli anni in cui la parola influencer inizia ad assumere il significato che ha oggi, grazie ai social media. Il lavoro dei paparazzi perde valore: gli influencer sono i paparazzi di se stessi. Pubblicano più volte al giorno storie su Instagram, foto o video brevi che si auto eliminano dopo 24 ore, riprendendosi in “tutte” le situazioni.

E perché ci piacciono e li seguiamo? Perché ci ispirano fiducia, sembrano amichevoli, sono persone che hanno avuto successo dal “nulla” e sono sempre “trasparenti”. Molti sono belli esteticamente: è inevitabile che nei social, dove tutti possono creare contenuti in pochi secondi, si tenderà a dare più opportunità a chi si presenta con un bel viso e fisico. Rihanna, Bella Hadid, Kendall Jenner, Kim Kardashian e la stessa Chiara Ferragni, per fare degli esempi, sono tutte donne belle e di successo. Per allargare il consenso e mantenere il potere sui social, ogni tanto vediamo come vengono postate foto per sensibilizzare sulle imperfezioni estetiche come acne o un naso storto, per poi tornare a mostrarsi impeccabili.

Questo è un comportamento del tutto comprensibile: siamo i primi a volerci mostrare perfetti sui social e per questo siamo disposti a condividere solo una piccola parte della nostra vita. Ma spesso ci ne dimentichiamo e eleggiamo a modelli di vita, persone la cui vita non conosciamo nemmeno! È così facile e veloce seguire una persona sui social, che forse non ci rendiamo conto del potere che le stiamo dando con un click.

È fondamentale ricordarsi di avere un atteggiamento critico verso tutto ciò che vediamo online, non credere a tutto ciò che il “grande fratello” dice! O finiremo per finanziare panettoni di influencer pensando che parte dei soldi vadano in beneficenza solo perché la Ferragni l’ha detto!

Inoltre, è interessante capire perché, se vengono esposti nella stessa vetrina un articolo che riporta nell’etichetta il nome o la faccia di una persona famosa (che però non c’entra nulla con il prodotto in sé), e accanto a questo lo stesso articolo prodotto artigianalmente da aziende italiane, perché dovremmo comprare il primo? Questo, tuttavia, è un altro tema.

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