Hate speech e dintorni – La libertà va a braccetto con la norma?

di Mariana di Lazzaro

La libertà di opinione ed espressione è un valore importante da tutelare, poiché in un Paese democratico come il nostro, ogni individuo ha il diritto di esprimersi e non essere attaccato per le proprie idee.

Nello specifico l’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei diritti umani, afferma che ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione e, per tale motivo non può essere molestato.

Ritengo fondamentali questi diritti e valori per poter vivere pacificamente in una società tutelata.

L’uomo ha sempre cercato di attribuire al linguaggio svariate funzioni e ha definito, con il potere della parola, un orizzonte entro cui muoversi in ambito sociale, per stabilire relazioni, creare una comunità o dare vita a conflitti e includere o escludere altri individui.

Oggi, la diffusione dei social network, ha modificato il modo in cui comunichiamo, e dunque, l’utilizzo di un linguaggio (parlato, scritto e visivo) è sempre più attento alle esigenze e sensibilità di minoranze storicamente marginalizzate.

Pertanto, è stato opportuno definire i limiti, entro cui un individuo può esercitare la propria libertà di manifestazione del pensiero.

Non è solo importante salvaguardare la libertà di pensiero, ma lo è altrettanto tutelare la propria dignità. È per questo che servono numerose normative a difendere questi diritti.

Nel secondo dopoguerra, le istituzioni internazionali, per rispondere alle atrocità commesse in nome di razza e razzismo, si sono dotate di strumenti giuridici, per tutelare i loro cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione e di opinione, formalizzando delle norme giuridiche.

È per questo che il termine Hate speech, ovvero “discorso d’odio” [1] e la giurisprudenza, si sono trovati l’uno di fronte all’altro.

Il termine “hate speech” è l’insieme di tutte le forme di espressione che si diffondono, incitano, sviluppano o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo ed altre forme di odio basate sull’intolleranza, sulla discriminazione, l’ostilità contro minoranze di popoli che traggono origini dai flussi migratori.

Come possiamo vedere dall’Articolo 3 della Costituzione Italiana, tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

Tuttavia, le prime leggi per tentare di contrastare l’hate speech e risalenti al periodo del secondo Reich (1871-1918) e all’Italia fascista (dal 1929 al termine della seconda guerra mondiale), non sarebbero state emanate per tutelare e proteggere le minoranze, vittime di odio, bensì per garantire il potere ai più forti, al fine di criminalizzare il dissenso. Infatti il decreto regio del 19 ottobre 1930 afferma: Chiunque pubblicamente istiga alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico, ovvero all’odio fra le classi sociali, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni

Occorre quindi evidenziare come questo delicato equilibrio giuridico tra la libertà di espressione e la repressione dei discorsi di odio si sia sviluppato in base alle circostanze storiche della/e società.

Infatti per esempio nel caso della legislazione tedesca, l’articolo 130 comma 1, emanato nel 1959, punisce la produzione e la diffusione di opere che incitano all’odio contro parti della popolazione o un gruppo nazionale, razziale, religioso o etnico, a prescindere dall’effettivo grado di pericolosità per l’ordine pubblico. E, se per un verso le misure adottate sembrano eccessive, tuttavia trovano una giustificazione nell’obbligo della Germania di reprimere il nazismo e ogni forma di razzismo, all’indomani del termine del secondo conflitto.

E d’altra parte, nel secondo dopoguerra sono soprattutto i governi non democratici a considerare l’incitamento all’odio come una minaccia all’unità della nazione.

La Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, del 1948, rivolta a tutti i cittadini del mondo, chiedeva il rispetto della libertà di opinione e di manifestazione del pensiero, ma non obbligava alla sanzione dell’hate speech. E mentre l’Unione Sovietica chiedeva una norma contro i discorsi di odio invece gli Stati Uniti e la Gran Bretagna evidenziavano il principio della libertà di espressione.

Nella seconda metà degli anni Sessanta, inizia a diventare prioritaria la lotta al pregiudizio e alla discriminazione, affinché l’odio possa essere penalmente perseguito e sanzionato.

Le coordinate di queste norme le forniscono gli Stati Uniti nel 1965 con la Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale. Grazie a questa convenzione, si arriva a condannare non solo la diffusione di idee basate sulla superiorità di razza ma anche la promozione e l’incitamento dell’odio razziale, essendo questo un periodo critico, in cui avvenivano ancora omicidi da parte del Ku Klux Klan.

Nel 1988 il Brasile inserisce nella sua nuova costituzione “l’ingiuria”, come aggravante dei crimini razziali.

Nel 2011, vengono inseriti nel Codice Penale italiano riferimenti espliciti a categorie protette, ovvero “gruppi” di vittime colpiti da hate speech.

A chi viola queste leggi viene imposta una pena detentiva di due anni.

Il discorso d’odio, determinato nel 1950 a Roma dai 13 Stati al tempo membri del Consiglio d’Europa, pur salvaguardando dei diritti dell’uomo, della famiglia e delle libertà fondamentali, non gode di norme specifiche.

Malgrado la loro diffusione, queste leggi spesso non specificano sul piano linguistico, un’espressione d’odio, in quanto l’hate speech misura l’offesa in base a come viene percepita dalla vittima e questo può produrre interpretazioni ambigue.

Infatti, nel nostro paese le leggi che tutelano l’hate speech non sono ancora completamente predisposte per casi specifici.

La Costituzione italiana ha 3 articoli che contrastano le espressioni di odio e d’intolleranza.
Questi sono l’art. 2 sui diritti inviolabili dell’uomo, l’art. 3 sulla pari dignità sociale e l’art. 21 sul diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con parola o con scritto.

Fin dal dopoguerra è stato ritenuto importante salvaguardare la libertà di pensiero e lottare contro le discriminazioni, per questo i legislatori hanno scelto strategie basate prevalentemente sul Diritto Penale, concentrandosi soprattutto sull’ odio etnico-razziale-religioso.

La prima legge nata dopo il fascismo è la 645 del 1952, detta “legge Scelba”, che vietava l’apologia del fascismo, ovvero quell’insieme di azioni e comportamenti diretti alla ricostruzione del partito fascista.

In seguito è stata emanata la legge 654 del 1975 detta anche “legge Reale”, che stabiliva l’applicazione della sanzione penale solo per le discriminazioni e le violenze nei confronti di persone appartenenti ad un gruppo nazionale, etnico o razziale.

Per apportare integrazioni e modifiche alla normativa vigente in materia di discriminazione razziale, etnica e religiosa, è stata inserita la Legge Mancino, emanata il 25 giugno del 1993. Tale legge sanziona e condanna frasi, gesti, azioni e slogan aventi per scopo l’incitamento all’odio, anche attraverso l’utilizzo di emblemi o simboli.

In seguito, sono stati creati i Decreti 177 del 2007 e del 2005, per vietare le trasmissioni televisive che incitino all’odio e il Decreto 21 del 2018, che punisce tutte le condotte di propaganda, di idee fondate sull’odio razziale e superiorità di razza, come la negazione o l’apologia della Shoah.

Naturalmente la nostra legislazione prevede inoltre specifiche norme contro il vilipendio e l’ingiuria.

Solo più recentemente anche il Codice Civile ha iniziato a contrastare l’hate speech e faccio riferimento alla legge Turco-Napolitano, la quale è caratterizzata da 3 articoli:                                                                  

Articolo 2: gli stranieri hanno diritto di asilo politico e nessuno può vietarlo.

Articolo 43: vieta la discriminazione razziale tenendo conto anche delle ragioni del discriminato e non solo del discriminante. Sono, dunque, vietati tutti quei comportamenti anche dei pubblici ufficiali che mettono in difficoltà senza motivo stranieri, di differente religione, etnia o razza. Anche il datore di lavoro viene punito, qualora discrimina il dipendente appartenente a diversa nazione o religione.

Articolo 44: stabilisce le norme processuali che regolano i procedimenti nei tribunali civili. Garantisce alla vittima di discriminazione assistenza presso centri specializzati, con lo scopo di non lasciarla sola.

Attraverso l’evoluzione culturale e sociale, il cittadino si è adattato a convivere con normative che hanno tutelato le libertà dell’essere umano.

Le parole hanno sempre avuto e manifestato un peso ed una misura, e molto spesso hanno ferito, fomentato, discriminato e annientato l’animo di persone innocenti, incapaci di poter essere liberi di esprimersi e di essere sé stessi.


[1] Testo di Federico Faloppa – “#Odio-Manuale di resistenza alla violenza delle parole” – casa editrice UTET- pubblicato nel 2020 a Milano.

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