Amazzonia: un popolo che muore

Di Monica De Filippis

La ricerca di nuovi territori, lo sfruttamento senza controllo di risorse e il disprezzo di popoli con tradizioni differenti, estranei al progresso, alla modernizzazione, alla globalizzazione sono elementi ricorrenti nella storia del genere umano. Un esempio: si pensi al periodo del colonialismo europeo, nel XVI secolo, in America latina, che portò allo sterminio di gran parte della popolazione nativa del luogo, sterminio giustificato dal pretesto della missione civilizzatrice nei confronti di popoli la cui unica colpa era quella di avere modi di vivere diametralmente opposti a quelli dei coloni occidentali. Oggi, in questo stesso luogo, l’America Latina e più precisamente nelle regioni all’interno delle quali si estende la foresta Amazzonica, si sta consumando una tragedia simile.

La deforestazione dell’Amazzonia, infatti, non ha solamente un impatto ambientale e climatico pesantissimo, ma va ad incidere profondamente sulla vita di tutte quelle comunità che da millenni vivono all’interno di essa, in stretto contatto con la natura, custodi di un sapere ancestrale: la distruzione della foresta coincide con la dispersione di tali popolazioni, che si vedono privati del loro habitat.

Ciò è acuito dalla diffusione, nell’ultimo decennio, del fenomeno della corsa all’oro e dal fatto che molti delle aree nelle quali risiedono le comunità indigene risultano essere ricche di giacimenti minerali: questi, dunque, vengono costretti ad abbandonare i propri territori. Nel caso dei cercatori d’oro, inoltre, bisogna dire che ciò, poiché la ricerca e l’estrazione dell’oro è effettuata con metodi illegali e che non tengono assolutamente conto dell’ambiente, determina l’inquinamento dei giacimenti fluviali, con conseguenti gravi impatti sulle comunità tradizionali.

La diffusione del Covid-19 non ha fatto altro che peggiorare la situazione, mettendo a dura prova, ancora una volta, la sopravvivenza di tali comunità.

Le cure mediche e l’assistenza sanitaria prestate nei loro confronti sono quasi del tutto assenti: mancano dispositivi medici di protezioni, come le mascherine, mancano tamponi, mancano medici; gli unici aiuti provengono dai volontari.

Per non parlare dei provvedimenti presi per cercare di arginare il diffondersi del virus nei loro villaggi: praticamente inesistenti. Eppure, si sa che queste popolazioni sono già di per sé meno resistenti alle malattie importate da noi: si pensi che qualche anno fa un’epidemia di morbillo scoppiata in una comunità indigena ne ha praticamente causato l’estinzione.

Ancora una volta è evidente quanto queste popolazioni siano soggetti a discriminazione, vittime non soltanto della prepotenza di chi cerca di arricchirsi sfruttando le immense risorse naturali del loro territorio, ma anche dello Stato. Uno Stato che dovrebbe proteggerli, dovrebbe salvaguardare l’unicità e la preziosità della loro cultura, ma che, invece, seppur tacitamente, appoggia la devastazione illegale dei loro territori. Perché il profitto, il guadagno è sicuramente preferibile a delle popolazioni che si ostinano a non intraprendere la via del progresso e, dunque, dell’integrazione.

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