LIBERTÀ E GIUSTIZIA NELLA DEMOCRAZIA MODERNA

di Sofia Ortolani, II B

Nella società odierna appare sempre più frequente la tendenza ad accettare le forme di espressione delle identità personali, che si manifestano in una pluralità di direzioni. La democrazia moderna, infatti, trova il suo fondamento nella libertà, intesa come assenza di costrizioni nelle azioni che riguardano se stessi. Questa libertà non ha niente a che vedere con il libero arbitrio, quindi non riguarda la possibilità da parte dell’uomo di determinarsi attraverso le proprie azioni, al contrario è una libertà passiva, ossia che impedisce allo Stato, e quindi alla società, di intervenire circa il comportamento del singolo, finché esso non abbia un effetto negativo sullo Stato stesso.

Il principio teorico che giustifica la libertà democratica è quello etico del riconoscimento dell’altro come “altro io”, che consiste nel comprendere che l’altro non è soltanto un oggetto del mio pensiero, ma che è lui stesso una mente pensante. Rivendicare l’autonomia dell’altro da sé vuol dire riconoscere la propria, nella consapevolezza che tutte le cose, quindi tutti gli individui, sono al tempo stesso soggetto pensante e oggetto pensato, volontà e conoscenza. In questa prospettiva assume valore il dialegesthai socratico, ovvero lo scambio di opinioni, che può esistere solo alla luce di queste due condizioni: la prima, quella che abbiamo chiamato conoscenza, ossia la diversità delle opinioni; la seconda, quella che abbiamo chiamato volontà e altro non è che volontà di conoscenza, poiché è necessario voler partecipare ad un’azione- che, nel caso del dialegesthai, è uno scambio di opinioni- perché essa sia considerata libera. Socraticissimo è, in questo senso, Guido Calogero, che afferma che “la conoscenza è volontà di conoscenza”: quest’identità tra volontà e conoscenza, tra io e altro, permette il passaggio dalla dimensione privata a quella pubblica. Applicando il principio etico alla vita associata, la libertà assume un valore politico, e diventa le libertà- di opinione, di parola, di stampa, di associazione…  La corrispondenza tra teoria e prassi emerge, dunque, nell’esercizio giuridico dello Stato, che garantisce i diritti. Il principio etico fornisce la giustificazione teorica delle leggi che regolano la vita associata. La libertà, dunque, nasce da un’emergenza etica, ovvero quella di regolare la convivenza tra gli uomini.

Contraria è la tesi di Herbert Marcuse, il quale individua nel bisogno di libertà una matrice storico-culturale. A confermare questa esegesi sono pensatori come i Philosophical Radicals, che verso la fine del diciottesimo secolo si impegnarono ad attuare una riforma radicale della politica in senso democratico. Lo stesso Calogero sente l’urgenza di gettare le fondamenta etico-politiche per un nuovo Stato, in virtù della condizione politica a lui contingente, ovvero il Fascismo, durante il quale i cittadini italiani furono privati dei loro diritti. Di conseguenza, una volta realizzati i progetti politici e raggiunto l’avanzamento culturale e tecnologico, la rivendicazione della democrazia è sprovvista di significato, e rischia di tradursi in una tirannide della maggioranza, quella che Marcuse chiama “democratica non-libertà”. Essa consiste in un condizionamento culturale del singolo, che viene influenzato dal pensiero della massa, espresso grazie alla democrazia, cosicché la sua stessa libertà viene meno. Secondo questa concezione, la distinzione tra un sistema di governo autoritario o non autoritario non è rilevante, poiché avviene in ogni caso una soppressione delle minoranze (nel primo da parte delle istituzioni, nel secondo da parte degli stessi cittadini).

Secondo la nostra concezione, invece, i bisogni, proprio in virtù del loro valore culturale e quindi contingente, non sono dei caratteri assoluti, ma regolativi. Così l’esempio di Calogero assume un significato diverso: la progettualità riguardo le istituzioni non rappresenta la fissità delle stesse, bensì costituisce un punto di partenza per stabilire continuamente, di volta in volta, le idee adeguate. L’etica ci consente di dare un significato alle nostre vite, la politica di mantenerlo. Quindi, lo status quo non è, come per Marcuse, il limes entro cui si racchiude la “possibilità reale”, bensì la regola (il “principio etico”) che aiuta l’uomo ad orientarsi nello spazio aperto dell’agire.

Di conseguenza, sarebbe assurdo definire il dialegesthai “socialmente inutile”: in un’ottica utilitaristica, come quella abbracciata da Mill (esponente dei già menzionati Philosophical Radicals) e Humboldt, è corretto teorizzare un vero e proprio “vantaggio del disaccordo”. Humboldt, ad esempio, afferma che è lo stesso disaccordo a condurre allo sviluppo della società: la volontà di conoscenza svolge la “fondamentale funzione critica” che fa sì che i nostri valori cambino insieme a noi.  Il progresso tecnico della civiltà industriale avanzata si identifica con la stessa natura umana, che riguarda non solo il pensiero, ma anche l’agire. In questa prospettiva antropologica, la téchne è lo strumento con cui l’uomo passa dalla libertà passiva alla libertà attiva, ossia quella sancita dal diritto. Il discorso sulla libertà non riguarda, quindi, solo ciò che è socialmente utile, ma anche ciò che è socialmente giusto. Calogero individua nel liberalsocialismo la formula che più adeguatamente riesca a conciliare i due aspetti della vita politica, ovvero il liberismo come fonte di vantaggio economico e il socialismo come garante della giustizia sociale, e auspica che “il guadagno e la giustizia avanzino insieme”.

La libertà non è un mero concetto teoretico, bensì trova corrispondenza pratica nella “giusta norma della libertà”, secondo cui libertà e giustizia sono non solo collegate, ma identiche. È la stessa libertà a garantire la tutela delle minoranze, pertanto la democrazia liberale risulta l’unica forma di governo capace di soddisfare l’emergenza etica.

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