IL LICEO CLASSICO TRA ‘LUNGO STUDIO’ E ‘GRANDE AMORE’

di Marco Occhiuto, 1C

Per molti anni nel liceo classico si è vista la scuola di formazione per eccellenza.    È la scuola del passato, della storia che insegna ai posteri, degli antichi ma attuali testi classici. 

Negli ultimi tempi, tuttavia, questa scuola, un tempo prediletta, ha subìto diversi attacchi. Le priorità del mondo digitalizzato e pragmatico del Duemila sono ben altre. Sarebbe, insomma, il tempo di dire addio al liceo classico. 

In realtà, il liceo classico rimane una scuola in grado di garantire vastissima formazione e, soprattutto, di dotare gli studenti di spirito critico. Il Latino e il Greco risultano di grande utilità per gli studenti: il loro studio è, infatti, una vera e propria ‘palestra mentale’. Non si può pensare, poi, di mettere da parte, di arginare le lingue della nostra storia: la lingua in cui Democrito, Platone, Aristotele e tanti altri filosofi riuscirono a raggiungere le vette più alte del pensiero e quella in cui Cicerone sventò il colpo di Stato di Catilina. È noto, inoltre, che chi osa frequentare il liceo classico risulta, all’università, pronto a tutto. Non trova, non può trovare porte chiuse. Anche gli studi scientifici si rivelano indubbiamente accessibili. Perfino le materie più pratiche, che gran parte della società ultimamente predilige, non incutono nessun timore in chi per anni ha dovuto far fronte al Latino e al Greco.

Ancora, il liceo classico offre agli studenti maggiori abilità linguistiche, insegna loro l’arte del parlare. Predispone gli studenti all’apprendimento delle lingue. Inoltre, chi ha frequentato il liceo classico di solito manifesta notevoli capacità nella scrittura. 

Lo studente del classico possiede un ricco bagaglio lessicale e, soprattutto, conosce l’importanza del lessico specifico. Addio, dunque, a quei troppo frequenti ‘fare’, ‘dare’, ‘cose’, che sempre – e impropriamente! – dilagano nei testi. 

Passando a motivazioni più profonde, non si può pensare di accantonare lo studio dei grandi classici, perché essi costituiscono la nostra storia. Se lo facessimo, perderemmo una parte importante di noi. L’uomo non può ridursi a una macchina da lavoro: è detentore di una realtà più intima e profonda, che bisogna saper nutrire.

Si pensi che lo stesso Quasimodo, premio Nobel per la letteratura, ritenne necessario – si noti: necessario! – intraprendere lo studio, da autodidatta, del Greco e del Latino. Lungi dall’essere per lui una perdita di tempo, questi studi, preziosissimi e di estremo vantaggio, lo dotarono sì di un grande sapere, ma soprattutto di un indispensabile spirito critico. 

Nondimeno, molti, anche tra gli stessi studenti del liceo classico, ritengono che ormai studi di tal genere siano stati superati. Alla luce di come ‘funziona’ il mondo di oggi e in nome di un infondato ideale di praticità, pensano che sia più opportuno dedicarsi agli studi scientifici o tecnici, insomma a cosa ‘più concrete’. 

Molto più efficaci, tali forse da disarmare ogni critica infondata a tal proposito, sono le parole dello scrittore Luigi Compagnone (1915-1998), che scriveva in merito alla lingua latina: “[Il Latino] fa intuire che al di là della tecnica e della scienza applicata, c’è la sapienza che conta molto di più perché insegna l’armonia del vivere e del morire. (…) Direttamente non serve a nulla, ma aiuta a capire tutte le cose che servono e a dominarle e a non lasciarsi mai asservire ad esse. (…) La disgrazia più inqualificabile [per gli studenti] è essere stati inclusi negli studi classici senza averne tratto nessun vantaggio intellettuale, la vera disgrazia è aver fatto gli studi classici ritenendoli e mal sopportandoli come il più grave dei pesi”. 

Per quanto poi riguarda gli studi scientifici, questi, lungi dall’essere sconsigliati o non importanti, solo in parte comprendono tutto il bagaglio formativo che il liceo classico garantisce. Laddove, infatti, il liceo classico offre una formazione completa anche nelle materie diverse dal Latino e dal Greco, il liceo scientifico manca del prezioso insegnamento della lingua e della cultura greca.

Tuttavia, bisogna riconoscere che anche il liceo classico, da qualche tempo, presenta alcune ‘crepe’, a cominciare dalla separazione delle cattedre di Latino e Greco.

Un sapiente studio in parallelo delle due lingue gioverebbe moltissimo allo studente. Inoltre, le traduzioni dal Greco e dal Latino costituiscono, per migliaia di studenti, un motivo di ansia e di preoccupazione non indifferente.

Ma a cosa serve davvero la cosiddetta versione? In primo luogo, occorre ricordare che è inutile tradurre senza comprendere. Quanti miglioramenti si noterebbero se solo si riflettesse di più sul brano che si sta traducendo, se solo si tentasse di capire a proprio vantaggio l’insegnamento che il testo scarno del Livio, del Cicerone o del Cesare di turno brama di comunicare. Se ci si ferma a una mediocre traduzione, che nulla sa dire, si finisce col diventare tanti Don Ferrante, che sanno sì un po’ di tutto, ma che non godono – cosa assai grave – di un proprio spirito critico. 

Vi sono poi tanti altri problemi: l’insufficiente conoscenza del contesto storico che porta ipso facto a versioni insufficienti; la scarsa padronanza della grammatica, strumento per la traduzione. 

È molto triste, poi, che perfino tra gli studenti serpeggi la consueta insoddisfazione, quasi il pentimento d’aver scelto una simile scuola. Le ragioni di questa rovinosa convinzione, che trasforma lo studio in un tormento, devono forse essere rintracciate negli schemi cui adesso si adegua la società, il mondo: schemi inflessibili, dove c’è posto solo per la mera e direi sciapa praticità, per la logica del freddo guadagno, per l’eccessiva cura dell’involucro esteriore e la totale dimenticanza dell’intimo nucleo di ogni individuo. Le giovani menti, così immerse in questo nuovo e volubile mondo, non sanno più orientarsi da sé e cedono a un’accettazione acritica e inconsapevole delle convenzioni. Ciò demotiva moltissimo lo studente, che sempre vede, nella realtà che lo circonda, ricchissimi personaggi famosi totalmente ignoranti o altri esempi del genere, e, pertanto, non riesce a comprendere la ragione profonda del suo solerte studiare: ecco allora che il piacevole studio si trasforma in un frustrante e vano tormento, finalizzato a un numero, il voto, in cui lo studente, a torto, riconosce il proprio valore. Dopo i pomeriggi passati a studiare all’ultimo momento, dopo le ore tolte al sonno, dopo la verifica, non rimane più nulla. Eppure, non scholae, sed vitae discimus! Come apparirebbe diverso il liceo classico, se solo ogni studente si convincesse che leggere Platone, Senofonte, Lisia e Terenzio, Plauto, Cicerone, Cesare, Lucrezio, Sallustio … non è una perdita di tempo o un dovere imposto e annoiante, bensì una sorgente inesauribile di conoscenze, di piacevoli interpretazioni, di profondi vantaggi personali e comuni! 

Certo, si tratterebbe in ogni caso di una scuola estremamente impegnativa ed esigente, ma la si vedrebbe con occhi diversi: non più come la grigia, impossibile scuola, ma piuttosto come un luogo di crescita, certo anche tra difficoltà, ma sempre e comunque un luogo di vantaggiosa e, dopotutto, felice preparazione, non esente appunto da quei dispiaceri, propri della vita, che il mondo di oggi tenta invano di depennare, ma che, al contrario, andrebbero convertiti in feconde occasioni di crescita personale. 

E quanto manca quella ‘fame di sapere’ che rende grandi, che valorizza gli studenti! L’interesse per lo studio, per il sapere appunto, si è ridotto paurosamente. L’approfondimento di certi argomenti non dovrebbe essere un espediente vano e pedante per alzare il voto, bensì una consuetudine quasi dovuta, direi irresistibile!

Ormai, purtroppo, lo studente, chiamato per esempio a studiare un poeta, impara a memoria forse le venti diapositive o pagine assegnate, dove sono condensate tutte le notizie biografiche dell’autore – destinate a un imminente e puntuale oblio – e si crede, in coscienza, a posto. Raramente s’interessa, tuttavia, di approfondire, di scrutare ancora più in profondità dentro l’animo dell’autore o di leggere qualche poesia in più, anche se non prevista dal programma.

In tutto questo sta, dunque, il vulnus del liceo classico. 

Ciononostante, sarebbe un grandissimo errore ‘cancellare’ il liceo classico per questi motivi. 

D’altronde, come afferma il Manzoni ne I Promessi Sposi, “la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro”. Questa pedanteria (perdonerà il lettore) per dire che non c’è niente di così perfetto da non avere qualche macchia e sbaglierebbe chi ‘scomunicasse’ lo scientifico, che pure è un’ottima scuola, a favore del classico. Commette, però, il medesimo errore chi pensa che il liceo classico non serva più a nulla.

Il liceo classico, difatti, resta un luminoso luogo di formazione, crescita e sviluppo fisico e intellettuale: si potrebbe definirlo, a suo modo, un alternativo locus amoenus, dove è possibile trovare la libertà.L’agognata libertà di ‘conoscersi’, senza veli; la straordinaria, sorridente capacità di riconoscersi sempre gli stessi nei secoli. Sì, il conflitto tra padri e figli, ad esempio, esisteva, così com’è oggi, già al tempo di Plauto e di Terenzio. “Non è tornato Eschino stanotte dal banchetto (…)! Io, per il fatto che mio figlio non è rientrato, che cosa non penso e quali preoccupazioni non mi vengono! Che non abbia preso freddo, che sia caduto…”. A titolo d’esempio, si è riportato il lamento preoccupato di Micione, un padre il cui figlio è rimasto fuori per tutta la notte. Quante volte, anche e soprattutto a noi giovani, è capitato di sentire un genitore in apprensione esattamente così? Non ci turba, scuote, teneramente travolge questa splendida attualità? E non ci batte forse il cuore, non sussulta forse la mente quando passiamo davanti ai resti degli antichi monumenti, teatri di eventi lontani e grandiosi? Non ci cattura la ricerca di senso, sommessa e disperata, dei grandi poeti? Forse non ci commuovono i miti dove la morte inesorabile è sconfitta dalla sublime forza dell’amore? Eppure, quanti di noi, fortemente scoraggiati, spinti dalla ‘turba al vil guadagno intesa’, hanno lasciato la ‘magnanima impresa’ di intraprendere la via della conoscenza?

E quanti di noi non nutrono neppure un umilissimo interesse nelle vicende amorose della letteratura, che pure tanto dovrebbero coinvolgerci, noi così giovani e così a stretto contatto con la sfera dell’amore, dell’amicizia e del rapporto con i genitori? Risulta più facile credere che questi ultimi siano stati disinteressati, demotivati, spenti da una visione contorta dell’apprendimento, causata non già da un disinteresse innato ma piuttosto da un errore nell’educazione loro impartita, nell’idea di scuola che si è loro trasmessa. 

Ma, nonostante tutto, al termine degli studi, all’epilogo triste e a un tempo felice di così ardui studi, al termine d’un processo di formazione e di crescita fisica e spirituale e, finalmente, alle soglie di nuovi e più estesi inizi, che cosa rimarrà? Insieme con i bei ricordi giovanili, baleneranno forse, nella memoria, l’humanus personaggio di Terenzio, la vis comica di Plauto, il riso di Democrito, tutte le infinite e sapienti massime filosofiche, le bellissime tragedie greche, le storie di donne disposte a sacrificare se stesse per il proprio consorte, l’infelix storia d’un amore malato ma umano come quello di Enea e Didone, l’ineffabile capolavoro dantesco, le liriche d’amore, e, ancora, la commovente storia di Renzo e Lucia, la tormentosa ricerca di senso d’un Leopardi disperato, i segreti meccanismi dell’inconscio e i traumi infantili d’un Saba abbandonato. Rimarranno, certo, impressi alcuni passi importantissimi, come l’Addio ai monti o alcuni passi di Dante, brevi invettive di Cicerone, forse qualche poesia. Evidentemente, non si può dire che si ricorderanno tutte le notizie biografiche, le date, le peculiarità stilistiche! Non è questo ciò che importa. Lo studente – prima ancora persona – potrà attingere a un così immenso viatico di sapere, utile in prima istanza alla propria realizzazione interiore, personale. Poco importa, poi, se ricorda quand’è nato Terenzio o Pirandello: importa, al contrario, se saprà far suo l’ideale d’humanitas, se saprà riconoscere dietro la ‘realtà che si vede’ le verità più autentiche e nascoste.       Perché, ci dice Pirandello in due meravigliose novelle, dietro il tetro iettatore può esserci un disperato padre di famiglia; parimenti, sotto la disdicevole maschera di una donna che con tutti civetta, può intimamente celarsi il travaglio d’una madre lasciata ed umiliata.  

Ebbene, lo studente che ha durato la fatica di studiare tutto ciò, con ‘grande amore’ e ‘lungo studio’, riceve il regalo più bello: gli occhi del sognatore, la tenacia di andare avanti nei propri ideali e, soprattutto, lo spirito critico, la capacità di discernere e, se necessario, di andare anche contro la massa.

Che incantevole regalo! E si vorrebbe cancellare tutto questo? Lo si vorrebbe… davvero?

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