Un anno dopo. Cosa (non) abbiamo imparato dalla guerra in Ucraina

Daniele Giannoni, 2G

È passato un anno da quel 24 febbraio 2022 che ha riportato una guerra al centro del dibattito pubblico italiano ed europeo a causa dell’invasione russa in Ucraina. Di guerre già ce n’erano in giro per il mondo, ma questo conflitto si è conquistato la scena sia per il nostro disinteresse rispetto a ciò che succede fuori dalla galassia occidentale, sia perché l’aggressione di Putin ha portato ad uno scontro tra la Russia e la NATO (e quindi anche l’Italia e l’Unione Europea), che da subito si è schierata con decisione dalla parte dell’Ucraina e che tramite le sanzioni e l’invio di armi sempre più pesanti è di fatto parte del conflitto.

La guerrasi trova al centro del dibattito pubblico, ma non la pace. Negli ultimi tempi la parola PACE si sente poco sui giornali e in televisione, come se non fosse il vero obiettivo di tutti. Che non sia l’obiettivo di Putin è evidente, altrimenti non avrebbe invaso un altro paese, ma dovrebbe essere sicuramente l’obiettivo della NATO e degli USA, che si pongono come paladini della libertà e della democrazia, oppure dell’Italia e dell’Unione Europea, che a causa delle sanzioni stanno soffrendo una terribile crisi economica, o almeno del governo ucraino, il cui popolo continua a morire sotto le bombe russe. Tuttavia tra i leader occidentali, da Biden a Zelenski, la parola più in voga in questo momento non è pace, ma vittoria.

La parola vittoria è una parola pericolosa, perché implica l’intenzione di non voler trovare un accordo di pace il prima possibile, ma di voler continuare il conflitto fino a quando il nemico non sarà sconfitto, fino a quando, come dice qualcuno, non avverrà addirittura l’annientamento della Russia, mentre lungo il fronte gli ucraini continuano a conoscere soltanto morte e devastazione. La parola vittoria è ancora più pericolosa se si pensa che il nemico da sconfiggere possiede circa 6200 testate nucleari, più dell’intera NATO, e il pericolo non è soltanto la possibilità che Putin ricorra al nucleare nel caso di una situazione estremamente critica (prospettiva per fortuna ancora lontana, ma comunque preoccupante), ma è anche il fatto che la sconfitta di una potenza militare come la Russia è pressoché impossibile per un paese come l’Ucraina.

Senza un accordo di pace dunque, andando avanti con la logica della vittoria, le possibilità sono o l’ingresso diretto della NATO nel conflitto, che genererebbe una terza guerra mondiale e forse l’utilizzo delle armi atomiche e che quindi è assolutamente da scongiurare, oppure una logorante prosecuzione della guerra, un aumento di morti e devastazione, che alla lunga andrebbe a mettere in ginocchio l’Ucraina e a favorire la Russia. Bisogna essere ben consapevoli in questo momento del fatto che, se la nostra priorità è il trionfo della NATO e dell’Ucraina e la sconfitta totale della Russia, per raggiungere questo obiettivo dovremo passare sopra ad altre decine di migliaia di morti, forse un allargamento del conflitto e sicuramente una prosecuzione della crisi economica che stiamo subendo; se invece vogliamo la pace, bisognerà necessariamente scendere a patti, ma si salveranno le vite di un popolo, quello ucraino, di cui l’Occidente si erge a estremo difensore e che da più di anno si trova sotto le bombe.

Se Putin sembra avere l’intenzione di continuare il conflitto, è evidente che siamo noi a dover cercare un tavolo di trattativa, e, quando dico noi, intendo noi europei. È infatti arrivato il momento che l’Europa si prenda il suo ruolo all’interno della scacchiera internazionale e che si scosti dall’ombra degli Stati Uniti sotto la quale fino ad ora è sempre rimasta. Il motivo di ciò non è soltanto quello della necessità di una potenza che faccia da tramite tra le due superpotenze in conflitto (Russia e USA), ma anche il fatto che i nostri interessi non sono gli stessi degli americani; basti sapere che dall’inizio della guerra abbiamo ridotto drasticamente le importazioni di gas russo in favore di quello americano, per il quale paghiamo il doppio. All’interno dell’Europa c’è stato chi ha provato ad alzare una voce di dissenso rispetto al prezzo del gas americano e all’assenza di un tentativo diplomatico, come i presidenti francese e tedesco Macron e Sholz, mentre l’Italia, prima con Draghi e ora allo stesso modo con la Meloni, non ha detto una parola e ha continuato a ricoprire una posizione di totale subordinazione.

Tuttavia purtroppo sembra che più passa il tempo, più la prospettiva di un accordo di pace si allontani (non dimentichiamoci che a marzo, a guerra appena iniziata, russi e ucraini si sedevano insieme al tavolo delle trattative). Questo sta portando da una parte ad una terribile guerra di logoramento, volta a disperare il popolo ucraino, dall’altra ad una grave crisi economica che sta colpendo duramente l’Europa e il nostro Paese. Non si deve infatti essere contrari alle sanzioni alla Russia, per riconoscere che sono esse stesse le responsabili della crisi che stiamo vivendo. È un dato di fatto che i provvedimenti presi per mandare al collasso l’economia russa, non hanno provocato gli effetti sperati e anzi ci si sono ritorti contro, perché non abbiamo calcolato la presenza di numerosi paesi in Asia, Sud America e Africa, che hanno scelto di non schierarsi a spada tratta con l’Occidente e di continuare a intessere legami commerciali con la Russia. Secondo l’UE, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, in seguito alle sanzioni, il Pil russo è calato soltanto del 2% (mentre la previsione iniziale dell’UE era un -11%), l’inflazione è cresciuta, come quella dell’Europa, dell’11% (mentre l’UE prevedeva un +22%), le importazioni sono al -9% (contro un -35% delle stime UE) e le esportazioni sono addirittura aumentate del 14.2% (contro una previsione del -30.9%). È così dunque che il racconto fornitoci allo scoppio della guerra, per cui le sanzioni avrebbero messo la Russia in ginocchio e forse addirittura sull’orlo del default, si è andato a sgretolare. Allo stesso modo, ci siamo resi conto che la narrazione che ci veniva proposta al momento della ritirata dei russi dal fronte settentrionale di Kiev, secondo la quale l’esercito russo era allo sbando e l’invio di armi avrebbe consentito in breve tempo la vittoria dell’Ucraina, era pura propaganda.

Sì, la propaganda non esiste solo in Russia e questo anno di guerra ce lo ha pienamente dimostrato. Da 12 mesi siamo perennemente bombardati, in televisione e sui giornali, da una narrazione binaria, che non prevede posizioni intermedie e che divide tra chi sta con il mostro (Putin) e chi sta con l’eroe (Zelenski), semplificando un tema molto complesso come quello del conflitto russo-ucraino. A risentirne sono stati la qualità del nostro dibattito pubblico, che spesso è sceso a livelli molto bassi, il diritto ad un’informazione completa e imparziale, che non ometta ad esempio la mancanza di una vera democrazia in Ucraina (dipinta come paladina dei valori democratici occidentali), e infine la piena libertà di espressione. Soprattutto nel periodo immediatamente successivo allo scoppio della guerra, abbiamo infatti assistito ad una violenta macchina del fango contro chiunque provasse a staccarsi dalla visione binaria del conflitto, analizzando le numerose sfaccettature e prendendo posizioni intermedie; volgere critiche contro la NATO e l’invio di armi e sostenere un tentativo di negoziato implicava l’essere tacciati di putinismo. L’apice si è raggiunto quando a giugno scorso il Corriere della Sera ha pubblicato in prima pagina nove nomi con nove foto e il titolo “Ecco i putiniani d’Italia”; l’articolo presentava una lista di opinionisti e influencer colpevoli di “voler orientare o peggio boicottare le scelte del governo” in materia di guerra, criminalizzando l’espressione del dissenso e le loro idee, che, per quanto possano non piacerci, in un paese che si definisce democratico sono sempre e comunque legittime.

In questo anno di guerra, ci sono stati poi due enormi passi falsi da parte di chi fa informazione, causati da un bisogno sfrenato di attribuire ogni colpa alla Russia per alimentare la narrazione propagandistica. Il primo risale al 26 settembre, quando avviene il sabottaggio del gasdotto Nord Stream e l’intera stampa italiana punta il dito contro i russi senza alcuna prova; pochi giorni fa, uno scoop del New York Times basato sulle dichiarazioni di funzionari dell’intelligence americana, rivela che i colpevoli sarebbero un gruppo di ucraini, forse supportati direttamente dal governo di Zelenski. Il secondo avviene il 15 novembre, quando un missile cade in Polonia uccidendo due persone; mentre il presidente polacco Duda e quello americano Biden cercano di tenere i toni bassi, in Italia giornalisti e politici di spicco (tra i primi Enrico Letta e Carlo Calenda) non esitano ad attribuire la responsabilità dell’accaduto alla Russia, fatto che implicherebbe l’ingresso ufficiale della NATO nel conflitto e lo scoppio della terza guerra mondiale; in quel momento, nemmeno il rischio di una simile tragedia fermò la retorica bellicista, e fortunatamente il giorno dopo si scoprì che era stato un incidente e che i missili provenivano da una contraerea ucraina. Questi episodi ci mostrano l’importanza di un’informazione seria e non fondata sulla propaganda, che finora è stata pericolosamente presente nel nostro paese.

In conclusione, se è passato più di un anno dall’inizio della guerra e se la nostra intenzione è quella di difendere il popolo ucraino, dobbiamo pensare di non aver fatto abbastanza per perseguire la pace e ragionare su una strategia alternativa a quella delle armi. Del resto, secondo l’ultimo sondaggio di Ipsos, il 45% degli italiani è contrario all’invio di armi in Ucraina, mentre soltanto il 34% è favorevole, e non è questione di putinismo: solamente il 7% infatti si schiera con la Russia, mentre il 47% sta con l’Ucraina e il 46% non si schiera da nessuna delle due parti. Anche in Parlamento, rispetto alla politica delle armi, si è ormai creata una fazione di dissenso (Alleanza Verdi e Sinistra, Movimento 5 Stelle e qualche disobbediente del Partito Democratico), che, qualsiasi opinione si possa avere in merito, è sicuramente un bene per la nostra democrazia in un paese in cui su questo tema la maggioranza della popolazione ha un pensiero diverso da quello dei suoi parlamentari. Insomma in un momento storico in cui il mondo è diviso in due, tra democrazie e dittature, noi, che ci auto collochiamo dalla parte dei “buoni”, abbiamo almeno il dovere di ricercare la pace e di difendere la nostra democrazia e la libertà di espressione da chi cerca di reprimere il dissenso.

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