Prendere coscienza dei propri privilegi per difendere i diritti di tutti

Melissa Olga Pascoletti, IIE

Leila Belhadj Mohamed ha relizzato un podcast dal titolo La mia parte, in cui dà una spiegazione molto chiara sui termini «diritto» e «privilegio».

«il diritto è il riconoscimento di te come persona, è un modo dello stato di dire che tu esisti, che lo stato si prende la responsabilità di guardarti le spalle. Non mi importa chi sei, né il colore della tua pelle».

Il privilegio invece è «una caratteristica casuale che si trasforma in una corsia preferenziale: una condizione necessaria per accedere a determinati spazi».

Mi trovo d’accodo con le parole di Leila: nascere privilegiati non è una colpa ma può diventare una responsabilità nei confronti dei meno fortunati, nel dare aiuto e assistenza.

Noi cittadini italiani siamo infatti dei privilegiati: abbiamo diritto all’istruzione, alla sanità, al voto, ai concorsi pubblici, a viaggiare. Abbiamo questi privilegi solo per il fatto di essere nati in Italia da genitori italiani. La cittadinanza italiana, invece, è un lungo processo per chi è straniero. La sua acquisizione può richiedere moltissimi anni, anche se si hanno tutte le carte in regola per riceverla.

Succede quindi che un figlio nato in Italia, da genitori stranieri, con regolare permesso di soggiorno, al compimento della maggiore età non abbia gli stessi diritti di un suo coetaneo, pur avendo frequentato le scuole in Italia, parlando perfettamente italiano e sentendosi italiano. Dovrà aspettare anni prima di ottenerla.

La questione del privilegio come occasione per essere d’aiuto verso i più deboli non si basa solamente su doti di generosità e di altruismo, ma su ideali di eguaglianza sociale e di evoluzione. Perché una società che aiuta è indice di una società evoluta, che tende all’ inclusione invece che all’esclusione, all’apertura verso lo sconosciuto invece che alla chiusura.

Prendere coscienza dei propri privilegi può diventare uno strumento di lotta per difendere e tutelare i diritti di chi è ai margini. 

La maggior parte di noi nasce come privilegiato e non ci rendiamo nemmeno conto della fortuna di tutti quei diritti acquisiti che abbiamo per nascita. Ma siamo tutti pronti, nella realtà di oggi,  a entrare in un’ottica di solidarietà e di estensione di diritti agli stranieri in un paese in cui sembra dominare la forza del singolo più della collettività? In un mondo in cui è più forte la forza dei like che degli ideali?

Come si fa a pensare di estendere diritti comuni a persone straniere e sconosciute se nella nostra piccolissima quotidianità, nel nostro minuscolo mondo pensiamo di più a noi stessi e alla difesa dei nostri privilegi?

Come si può pensare ad un’inclusione di persone che vivono ai margini della società se noi tendiamo più ad escludere che ad includere anche nei nostri rapporti sociali quotidiani?

Quello che voglio dire è che se questa spinta al cambiamento non la si trova come atteggiamento quotidiano di apertura verso l’altro è molto difficile che il mio privilegio diventi uno strumento di lotta per aiutare. Posso addirittura essere più preoccupato a mantenere i miei privilegi, a vivere nel mio piccolo mondo, tenere lontano gli altri che non appartengono alla mia categoria sociale e vivere con una mentalità ottusa che mi porta a pensare che gli immigrati che vengono in Italia, provenienti dalla Libia, dalla Liberia, dal Senegal siano tutti criminali. Infatti questa è spesso l’opinione comune sugli immigrati, sugli stranieri che provengono dall’altra parte del mondo: noi siamo già troppi per ospitare altre persone e dovrebbero essere aiutati a casa loro.

Ma come possiamo delegare il rispetto dei diritti umani a quegli stati che li calpestano e dai quali queste stesse persone fuggono?

Dovremmo lottare per i diritti umani, perché sono universali. Attraverso il nostro aiuto e il contributo delle organizzazioni umanitarie possiamo aiutare gli altri a far sentire la propria voce, visto che la maggior parte del mondo questo diritto non lo ha. Non dobbiamo essere per forza sul campo, andare in Siria in un campo profughi o vivere nella Striscia di Gaza. Possiamo aiutare in tanti modi, anche discutendo con chi non la pensa come noi, per ascoltare, per capire.

Alcuni pensano ancora che ci siano persone di serie A e di serie B e che sia giusto salvaguardare i propri privilegi, che il diverso da noi rimanga distante, che non ci possa essere integrazione sociale. Invece sarebbe utile sfruttare il nostro status di privilegiati per favorire la libertà e la felicità a quante più persone possibili. È importante lottare per i diritti degli altri ma è ancora più importante non lottare contro i diritti degli altri.

A questo proposito sono tanti i racconti di persone che nella storia hanno aiutato gli altri attraverso i loro privilegi acquisiti. Pensiamo a Oskar Schindler che salvò 1000 ebrei dallo sterminio, usando il suo privilegio di essere tedesco e imprenditore per assumerli come operai nella sua fabbrica a Cracovia.

Nella mia vita familiare penso invece a piccole storie sconosciute, come quella di Aida, una signora senzatetto che viveva per strada sotto casa nostra: grazie al privilegio di essere cittadini italiani siamo riusciti a trovare sua figlia a New York e a riunirle dopo tre anni. Penso a Saba, la badante di mia nonna che scappa dall’Etiopia a 16 anni da un matrimonio forzato e diventa parte della nostra famiglia. Penso a Sofia, che dall’Ucraina viene in Italia da clandestina e grazie ai nostri privilegi di semplici cittadini riesce ad ottenere un permesso di soggiorno e far venire sua figlia.

Penso alle tante associazioni umanitarie che ogni giorno lottano per dare una voce a milioni di persone la cui parola è bloccata da dittature militari e religiose.

Penso anche a quel ragazzo di 15 anni del Mali che nel 2019 si imbarca su un gommone per trovare un futuro diverso, senza mai arrivare a destinazione.  Aveva cucito nella giacca la sua pagella per dimostrare i suoi sforzi, le sue capacità nello studio, pensava gli avrebbe aperto chissà quali porte di una scuola italiana o europea. Di questo ragazzo non sapremmo mai il nome, ma la sua testimonianza dovrebbe essere di esempio perché l’acquisizione dei diritti possa essere raggiunta senza mettere in pericolo la propria vita.

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