Canto della pianura. Una recensione

di Lavinia Andreozzi e Maria Ortolani, 1D     

Il romanzo Canto della pianura di Kent Haruf è il primo della  trilogia da lui scritta; nonostante sia incerto l’ordine della loro creazione, l’autore stesso afferma che quello di cui andremo a parlare è il primo, seguito da Crepuscolo e infine Benedizione. Tuttavia la casa editrice ha dato un ordine diverso alla saga: è infatti Benedizione ad essere il primo, seguito da Canto della pianura e infine Crepuscolo; questi romanzi sono collegati da un sottile filo che ricollega personaggi e vicende, ma ogni libro ha una storia a sé, quindi può essere letto singolarmente.

Le vicende del libro Il canto della pianura si svolgono a Holt, una piccola cittadina immaginaria del Colorado che ospita i nostri protagonisti: Guthrie insegna storia americana al liceo, dove non va molto d’accordo con un suo alunno, Russell Beckman, che a causa delle molteplici bocciature nella sua materia, gli porterà non pochi problemi. Guthrie ha anche  due figli di cui prendersi cura, Ike e Bobby, due bambini di nove e dieci anni,  inseparabili: tutte le mattine consegnano i giornali alla città prima di andare a scuola e spesso accompagnano il padre dai Mcpheron, due anziani fratelli proprietari di una fattoria poco lontana dalla città, per aiutarli con i lavori nei campi e a visitare le bestie, per guadagnare qualcosa; nel frattempo la madre, Ella, passa le giornate a letto al buio senza mai lasciare la sua  stanza, suscitando la preoccupazione dei figli e del marito.

 Nella classe di Guthrie vi è anche Victoria Roubidoux: dopo aver scoperto di essere rimasta incinta, il ragazzo l’abbandona e non risponde più alle sue chiamate mentre la madre la caccia di casa; ad accoglierla in casa sua sarà Maggie Jones, un’altra sua insegnante, che poi, non potendola più tenere a causa del padre malato, la manderà a vivere nella fattoria con i fratelli Mcpheron, che conosceva molto bene e di cui sapeva di potersi fidare.

Haruf comincia a raccontare contemporaneamente storie tutte diverse, che apparentemente non hanno nulla in comune e lasciano perplesso il lettore non facendogli comprendere quali siano effettivamente le  intenzioni dell’autore; man mano però le storie cominciano a prendere forma, a collegarsi tra di loro con l’incontro di alcuni personaggi, con altri che già si conoscevano, formando un vero e proprio intreccio tra le varie storie che si collegheranno tutte in un finale inaspettato e soddisfacente, che ripaga le difficoltà, le sofferenze che hanno dovuto affrontare i personaggi nel corso della loro storia;  è  questo il vero punto di forza del libro.

Haruf presta molta attenzione alla descrizione di ogni componente della storia, in particolare ai paesaggi del Colorado, stato in cui ha vissuto e che gli permette di avere una certa dimestichezza nel descriverne le vaste distese desolate. Questa cura con cui vengono descritti i paesaggi di una cittadina immaginaria fa immedesimare il lettore nelle vicende del libro, permettendogli di avere una visione intera del luogo in cui sta accadendo qualcosa, facendolo sentire “partecipe” della storia. Inoltre Haruf non attribuisce a nessuno dei personaggi una maggiore importanza, bensì sono posti tutti sullo stesso piano.

Il libro tratta tematiche serie e molto importanti, nonché attuali, che vengono però impostate così da non far risultare la lettura pesante; il modo in cui  sono rese le emozioni con cui hanno a che fare i nostri protagonisti, i difficili alcuni momenti che passano, sottolineano come questo romanzo sia reale, che di immaginario ci sia solo la città.

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