Cancel culture

Ginevra Augello

Si dice spesso che il web è come una piazza affollata, ma sarebbe più opportuno definirlo un anfiteatro con gli spalti gremiti di spettatori, che attendono con trepidazione il prossimo scontro tra gladiatori. Fischi e grida di esultanza accompagnano gli spettacoli che si tengono nell’arena e, quando giunge il momento di decidere la sorte dello sconfitto, è il giudizio popolare a decretarne la morte o la sopravvivenza. Il verdetto si basa quasi esclusivamente sulla vox populi: non ci si affida alla razionalità, non si cercano prove incontrovertibili su cui fondare il proprio giudizio, ma ci si aggrappa alla possibilità di far parte di una comunità nella quale sentirsi apprezzati. 

La cancel culture si basa su un principio antichissimo e consolidato: se si rimprovera il bambino quando disubbidisce e lo si loda quando ubbidisce, questi prediligerà l’obbedienza, in quanto mezzo attraverso cui ottenere gratificazione. Allo stesso modo, la cancel culture spinge all’omologazione nei confronti di un sistema di principi e azioni attraverso un modello educativo analogo: se si segue il gruppo, allora si diventa parte di una comunità pronta a gratificare chi si allinea con il suo pensiero e si è tutelati dalle azioni punitive della stessa; se tuttavia ci si scontra con il gruppo, si subirà la “cancellazione”. Quest’ultima è un processo di orwelliana memoria: come in 1984 il Ministero della Verità si occupa di eliminare i fatti -e i personaggi- scomodi per il Partito, così i sostenitori della cancel culture rimuovono gli utenti o i contenuti che rappresentano un’anomalia nel loro sistema ideologico. Si tratta, dunque, di una forma di estremismo, un’esasperazione del politicamente corretto caratterizzata da fanatismo e censura, che si maschera dietro una giusta causa o presunta tale.

La cancel culture si articola in due filoni principali: l’attacco personale ad un individuo, generalmente un personaggio pubblico e la critica e la revisione storica e culturale. 

Il primo trova terreno fertile nell’ambiente internautico, luogo di indagine e tribunale popolare, in cui i social media divengono un’arma impropria per minare la reputazione del soggetto sotto scrutinio. Quest’ultimo viene esposto alla gogna per un commento di troppo, per una frase ambigua, per lo screen tagliato di una chat che lo dipingerebbe in un certo modo ed una volta che quel passo falso è stato compiuto o quella calunnia è stata messa in rete, è impossibile fermare la reazione a catena innescata. Così, alla fredda indignazione di un dislike o di un unfollow si uniscono l’accanimento, gli insulti ed il boicottaggio, volti ad eliminare quella “minaccia”, quell’anomalia che sembra essere il canalizzatore di tutti i mali del mondo. 

Un caso esemplare di questa demonizzazione, basata spesso su prove insufficienti o su testimonianze di parte, è quello del processo Depp-Heard, ancora in corso di giudizio. Ciò che è interessante analizzare, in particolare, sono gli eventi che hanno preceduto il processo. Quest’ultimo origina da un evento ben specifico: l’immagine pubblicata dall’attrice Amber Heard, che mostrava un segno rosso sul suo viso, seguita dalla dichiarazione di star subendo violenza domestica da parte del marito Johnny Depp. È stato proprio l’attore statunitense a portare la moglie in tribunale con l’accusa di diffamazione. Tuttavia, il danno ormai è stato fatto. Infatti, sebbene nessun giudice abbia ancora stabilito un verdetto di innocenza o colpevolezza e sebbene la foto della Heard costituisca solo una prova indiziaria, la reputazione e la carriera di Depp sono state inevitabilmente compromesse: l’industria cinematografica ha completamente abbandonato l’attore, escludendolo anche dai progetti a cui stava lavorando. Così, dietro la maschera della condanna alla violenza di genere, è stata eseguita una condanna senza processo al fine di ottenere il consenso di quella fetta di pubblico che crede che la cancel culture sia una soluzione e non un nascondere la polvere sotto al tappeto.

Ma il più preoccupante è senz’altro il secondo filone: quello che colpisce la storia e la cultura. Celebre è il caso della controversia sull’uso del termine “scoperta” per riferirsi all’episodio dell’approdo di Cristoforo Colombo nelle Americhe, che suscita spesso un fermento ed un’indignazione spropositati e certamente degni di miglior causa. Tuttavia, il caso più raccapricciante è il recente episodio dell’università Bicocca di Milano, che ha bloccato un corso su Dostoevskij, in un tentativo decisamente maldestro di esprimere la propria posizione in merito al conflitto Russia-Ucraina ancora in corso. Si tratta di un infelice caso di censura della cultura russa, un esempio da manuale di cancel culture, che tenta di combattere le ingiustizie cercando un capro espiatorio facile da eliminare, per poter così dire di star progressivamente smembrando l’invisibile gigante centimano che torreggia sulla nostra società, inondandola di odio e pregiudizi. 

A questa mentalità sfugge che azioni simili non si discostano troppo dai roghi di libri dei nazisti o dalle modificazioni dei programmi scolastici sotto i regimi totalitari: non si esercita la propria libertà, ma si costruiscono le basi per una dittatura; non si cancellano le discriminazioni, l’odio e la violenza, ma se ne generano di nuovi. 

Per questo, l’approccio da scegliere non è la cancellazione, ma lo sviluppo di un pensiero critico, basato sul riconoscimento degli errori del passato. Nel contesto della lotta al revisionismo culturale, questa è stata la linea d’azione della Disney, che ha posto dei messaggi all’inizio di alcuni classici dell’animazione, segnalando la presenza di contenuti discriminatori e possibilmente offensivi e dichiarando di volerne consentire la fruibilità al fine di promuovere una riflessione su queste tematiche.

Sarebbe dunque opportuno che i sostenitori della cancel culture facessero un passo indietro e ricordassero le parole del filosofo John Stuart Mill: tutti devono poter esercitare la propria libertà ed esprimere il proprio pensiero, ma senza ledere la libertà altrui. 

Si difenda il diritto all’informazione, allo studio, alla cultura.


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