Colpevole?

Di Valeria Cassisa

Un sabato mattina mi svegliai. Avevo la testa pesante. Restai a letto per qualche minuto, guardando, davanti a me, la scrivania inghiottita dal buio e rischiarata dal sole di prima mattina, che filtrava attraverso le fessure della tapparella. Mi decisi ad alzarmi e, abbandonando il caldo del letto e la tranquillità del sonno, mi scoprii e fui attaccata dal freddo di dicembre. Come di consueto, mi preparai il caffè e mangiai tre biscotti. Mi sentivo strana, ma mi dissi che probabilmente era la stanchezza. Mi vestii con gli indumenti più pesanti, che riuscii a trovare, e cominciai a studiare. Non feci in tempo a sedermi, che suonarono alla porta. Controvoglia, mi diressi all’ingresso; chiesi chi fosse e mi rispose la polizia. Immediatamente fui riscossa. Aprii. Mi trovai davanti due uomini in uniforme, che mi squadrarono dall’alto al basso. Non sapevo cosa dire, o pensare; credetti si fosse verificato un furto. Feci per aprire la bocca, ma un uomo mi fermò. Mi chiese se fossi Cassisa Valeria e, quando annuii, mi dichiarò in arresto. Mi misero le manette, ma non le strinsero molto, evidentemente vedendo che ero collaborativa. Scesi per le scale e in un attimo mi ritrovai nella macchina dei due poliziotti. Mi portarono in centrale, dentro una stanza angusta, con una piccola finestra. Mi fecero sedere. All’inizio rimasi ferma, fissando un uomo, presumibilmente l’investigatore, che nel frattempo si era          seduto dirimpetto a me. Mi riscossi, dicendomi che non avevo motivo di preoccuparmi, non avendo fatto niente di male. Ma era vero? In effetti i ricordi della notte passata erano molto offuscati. Decisi di chiedere spiegazioni, ma proprio mentre ero in procinto di parlare, l’uomo disse: “Signorina, lei è accusata di tentato omicidio nei confronti del signor (…).” Non lo conoscevo. Continuò: “Dove si trovava ieri sera?”. Rimasi stupefatta da tale accusa. Non avrei mai tentato di uccidere. Ma ne ero sicura? Non riuscivo a ricordare ciò che era accaduto. Tentai invano. Doveva essere passato qualche minuto, poiché l’uomo mi ripeté la domanda. Senza pensare, risposi: “Non lo so”. Bisbigliò qualcosa all’orecchio del poliziotto che gli stava accanto, poi si alzò e uscì. Io rimasi da sola con il poliziotto. Era sulla quarantina, incrociò il mio sguardo e poi lo distolse, guardando fuori la finestra. Dal canto mio, iniziai, senza accorgermene, a fissare la scrivania davanti a me. Qualcuno doveva avermi calunniato. Era impossibile che io avessi fatto una cosa del genere. Dopo qualche minuto che fissavo il tavolo, ricordai. Era sera e mi trovavo davanti l’edicola, che distava una cinquantina di metri da casa mia. Mi riscossi. Non sapevo se ciò che mi sembrava di aver ricordato fosse reale o solo uno scherzo dell’immaginazione. L’investigatore rientrò, dicendomi che aveva chiamato i miei genitori. Rimanemmo in quella stanza per quella che sembrò un’ora. Proprio quando l’atmosfera era diventata insopportabilmente claustrofobica, arrivarono i miei genitori. Subito mi accorsi dello sguardo severo che mi rivolsero. Rimasi impietrita. Come potevano credere che avessi fatto una cosa del genere? Accanto alla paura, all’ansia e allo sconforto si fece strada la rabbia. Volevo urlare contro tutti. Contro l’uomo e il poliziotto, che mi guardavano con severità e insieme compassione; contro i miei genitori, che mi scrutavano quasi con disgusto. Volevo gridare che ero innocente. Ma non lo sapevo. Non ero sicura di esserlo: non ricordavo niente, o meglio, ricordavo, ma piccoli avvenimenti, in disordine. Riprendendomi da questi pensieri, mi accorsi che ero stata lasciata sola con i miei genitori. Mi costrinsi a restare calma. Mi guardarono con severità e insieme incredulità: non credevano che avessi potuto fare una cosa del genere. Per un attimo pensai di stare sognando. Mio padre parlò: “Vale, ma che hai fatto? Come diamine hai fatto a finire in una centrale di polizia? Ma dov’eri ieri sera? Non eri uscita con S.?” Per un attimo mi tornò alla mente qualcosa.  Quella sera, in effetti, sarei dovuta uscire con S.; ero uscita con S., questo lo ricordavo. Risposi di sì. “Sì cosa?”, intervenne mia madre, “Vale, la gente crede che tu sia diventata pazza. È impossibile che tu abbia fatto una cosa del genere.” La gente credeva che ero pazza? Ero diventata pazza? No, non era possibile. Rientrarono l’investigatore e il poliziotto, e con loro c’era quello che doveva essere il mio avvocato. Lo conoscevo, era un amico di mio padre; un uomo sulla sessantina, dall’aspetto severo, ma dall’ animo buono. Dopo che rimanemmo da soli, ci spiegò che ero stata accusata perché presente nelle registrazioni delle telecamere di sicurezza. Ciò bastava a detenermi in centrale. Avrei passato lì i giorni che mi separavano dal processo che mi aspettava. Ci spiegò che avrebbe provato a usare la mia presunta “pazzia” per attenuarmi la pena, in assenza di prove che confutavano la mia colpevolezza. Non replicai. Non dissi che ero sana. Non ricordavo quello che avevo fatto, ma se avevo davvero cercato di uccidere qualcuno, allora dovevo esserlo.

Fui portata in una cella. Da sola. Era un ambiente piccolo, con le pareti grigie e una piccola finestra. Prima che il mio avvocato se ne andasse, gli chiesi quanto avrei dovuto aspettare, e questi mi rispose che avrei dovuto passare due settimane in attesa del processo. Mentre mi portavano in cella, avevo visto le persone guardare nella mia direzione e bisbigliare tra loro: probabilmente la notizia era già apparsa al telegiornale. I miei genitori erano rimasti in silenzio ad ascoltare l’avvocato, con l’aria quasi assente, come se non volessero accettare quello che stava accadendo. Io avevo capito che ero condannata alla galera, comunque fossero andate le cose.

Nella cella mi sdraiai sullo scomodo letto. Mi assopii. Quando mi risvegliai, trovai il pranzo poggiato su una sedia. Non lo mangiai: non avevo fame e di certo il piatto non era invitante. Mi sforzai di ricordare. Ero davanti l’edicola. Stavo ritornando a casa, mi passò accanto un uomo. Poi nulla. Sapevo solo di essere ritornata a casa ed essere andata a letto. Non era tardi, saranno state le undici. A furia di sforzarmi, mi venne il mal di testa. Mi rimisi a dormire. Per una settimana tutto quello che riuscii a ricordare fu questo. La stanza era diventata soffocante. Non avevo niente da fare, mi perdevo nei pensieri e a volte mi sembrava di vedere davanti agli occhi il viso della vittima, che ora si trovava in coma. Era tutto frutto dell’immaginazione, non potevo ricordarne il viso: non l’avevo mai visto. O forse sì? L’avvocato mi aveva fatto visita qualche volta, dicendomi di non preoccuparmi, poiché questo primo processo non era quello finale, ma era per stabilire se dovevo rimanere in cella oppure andare agli arresti domiciliari. Mi chiese se ricordavo qualcosa, e mi disse che sarebbe venuto a farmi visita uno psicologo, per valutare la mia sanità mentale. Tutte le volte che era venuto, ero rimasta in silenzio. Iniziai a chiedermi se fossi davvero pazza. Mi era capitato, nella noia, di immaginarmi di colpire con un’asta di ferro la testa del signore. L’avvocato mi aveva raccontato come erano andate le cose, e mi aveva anche detto che l’asta non era stata ritrovata. Arrivò il processo, durante il quale rimasi in stato di trance. Mi accordarono gli arresti domiciliari, poiché apparivo solo al margine delle riprese, e, in assenza di altre prove contro di me, non potevano detenermi in cella. Il prossimo processo, quello importante, sarebbe stato tra due mesi. Continuai a tormentarmi, a cercare di ricordare. Pezzo per pezzo ero riuscita a ricostruire che a casa ero arrivata correndo, perché spaventata da ciò che avevo visto. Ricordavo solo di avere visto un uomo steso a terra in una pozza di sangue, ma non cosa era successo prima. Mi assillavo, rivivevo ancora e ancora la scena. I giornali continuavano a parlare dell’accaduto, affermando anche che ero pazza, anche a seguito della visita con lo psicologo, durante la quale ero rimasta completamente in silenzio. Iniziai a credere di essere stata io a colpire l’uomo, di essere la colpevole. Mi assillai con i sensi di colpa. Raccontai all’avvocato ciò che ricordavo, ma mi disse che non era rilevante. Una settimana prima del processo rimembrai che avevo visto un uomo, vestito con una tuta grigia, colpire il signor (…). Non riuscii a ricordare il volto. Però ne ero certa, non avevo colpito io l’uomo, che ora era in coma.

Arrivò il giorno del processo. Raccontai all’avvocato ciò che avevo ricordato; si congratulò con me, ma, ormai, non essendoci prove contro questo presunto colpevole di cui io parlavo, non essendo stata ritrovata ancora l’asta, non poteva fare altro che cercare di farmi attenuare la pena; aggiunse, inoltre, che non ero attendibile come fonte di informazioni, per via del mio stato. Pronunciò queste ultime parole con molta calma; guardai i miei genitori, che gli sedevano accanto, quasi si fossero schierati tutti e tre contro di me, e vidi che mi scrutavano non con rabbia o frustrazione per l’ingiustizia e lo sbaglio che si stava per commettere, ma con tristezza e compassione.

Fui portata in aula. Non prestai attenzione, non fui invitata a parlare in mia difesa. Continuai a tormentarmi per ricordare il volto dell’uomo. Nel momento in cui il giudice stava pronunciando la sentenza, mi tornò alla mente. Era stato l’investigatore. Era stato lui, ne ero certa. Iniziai a guardarmi intorno, sperando di vederlo. Lo scorsi. Era in piedi, appoggiato al muro. Mi alzai e iniziai a gridare, indicandolo e accusandolo: non potevo sopportare che la passasse liscia. Mi presero per le braccia e in un attimo fui portata fuori dal tribunale. Continuavo a dimenarmi e a urlare. Un signore, evidentemente non molto pratico, prese una siringa e una piccola fiala, in cui probabilmente c’era un sedativo. Riempì la siringa e cercò di iniettarmi il sedativo. Tentai di ritrarmi, ma braccia molto più forti delle mie mi trattennero. Vidi comparire l’investigatore dietro un poliziotto e rivolgermi un sorriso beffardo, prima di cadere in un sonno profondo.

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